Diritto e Giustizia Amministrativa

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Sulla revocazione può decidere lo stesso giudice

Ad. Plen., sentenza n. 5 del 24 gennaio 2014
Data: 
24/01/2014
Tipo di Provvedimento: 
sentenza

 

N. 00005/2014REG.PROV.COLL.

N. 00030/2013 REG.RIC.A.P.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 30 di A.P. del 2013, proposto da: 
Ministero dell'Economia e delle Finanze - Comando Generale Guardia Di Finanza, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, presso i cui Uffici, ope legis, domicilia in Roma, via dei Portoghesi, 12; 

contro

Felice Grieco, rappresentato e difeso dall'avv. Valeria Pellegrino, con domicilio eletto presso Valeria Pellegrino in Roma, Corso Rinascimento, 11; Biagio Magaudda; 

per la revocazione

dell’ordinanza cautelare della IV Sezione del Consiglio di Stato n. 855 del 2013, depositata in data 13 marzo 2013, resa tra le parti, concernente esclusione dal concorso per il reclutamento di 16 tenenti in servizio permanente effettivo del ruolo tecnico logistico amministrativo del corpo della guardia di finanza.

 

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Felice Grieco;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 9 ottobre 2013 il Cons. Nicola Russo e uditi per le parti gli avvocati dello Stato Greco, e Gianluigi Pellegrino per delega di Valeria Pellegrino.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

 

FATTO

Il sig. Felice Grieco ha partecipato al concorso per il reclutamento di 16 tenenti in servizio permanente effettivo del ruolo tecnico - logistico - amministrativo del Corpo della Guardia di Finanza, posizionandosi al 14° posto della graduatoria unica di merito ed al 2° posto della specialità motorizzazione di cui all’art. 1 comma 1 lett. b) del bando di concorso. Il primo in graduatoria e, quindi, il vincitore del posto specialità motorizzazione è risultato il sig. Biagio Magaudda, con una differenza rispetto al ricorrente di soli 0,55 punti.

Con ricorso proposto innanzi al T.A.R. del Lazio il sig. Felice Grieco ha chiesto l’annullamento della graduatoria di merito e di tutti i verbali delle operazioni compiute della Commissione con specifico riferimento alla “specialità motorizzazione” e ha contestualmente impugnato, ex art. 116, comma 2, c.p.a., il parziale diniego di accesso agli atti di cui alla nota 10.10.2012 prot. n. 0168707 chiedendo al giudice di “ordinare alla P.A. l’esibizione dei documenti richiesti con istanza 13.09.2012 e 14.09.2012”.

Con ordinanza n. 4673 del 20.12.2012, il TAR, pronunciandosi limitatamente all’impugnazione contro il diniego di accesso agli atti, ha accolto l’istanza, ordinando all’amministrazione resistente di esibire copia di tutta la documentazione relativa alla partecipazione del controinteressato Biagio Magaudda.

Con ricorso notificato in data 01.02.2013, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha appellato la suddetta ordinanza in quanto erronea ed ingiusta, dal momento che, da un lato, il T.A.R. avrebbe dovuto dichiarare irricevibile per tardività il ricorso di primo grado e, dall’altro, perché non vi sarebbero i presupposti giuridici per ordinare l’esibizione dei documenti riguardanti il sig. Biagio Magaudda.

Si è costituito in giudizio il sig. Felice Grieco, eccependo preliminarmente l’irricevibilità per tardività dell’appello, nonché la sua inammissibilità e l’infondatezza nel merito.

Con ordinanza n. 855/2013 questo Consiglio ha accolto l’eccezione di tardività dichiarando irricevibile l’appello proposto dal Ministero “considerato che nella fattispecie sussistono profili che appaiono ostativi ad un esito favorevole del ricorso in appello, con riferimento al mancato rispetto del termine dimidiato ai sensi dell’art. 106 del c.p.a., in materia di procedimenti giurisdizionali inerenti l’accesso documentale”.

Con ricorso notificato in data 25.03.2013, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha chiesto la revocazione della predetta ordinanza 13.03.2013 n. 855.

Si è costituito in giudizio il sig. Felice Grieco, eccependo l’inammissibilità e, gradatamente, l’infondatezza del ricorso per revocazione.

Con nota prot. n. 3005/I in data 16 maggio 2013, il Presidente della IV Sezione, ha fatto presente che “esaminando la composizione dei collegi sino a dicembre riesce difficile comporre un collegio che, in base a quanto stabilito nell’Adunanza Plenaria n. 2 del 2009 escluda tutti i precedenti componenti che, sempre in base alla predetta decisione, sarebbero da ritenere incompatibili” e, pertanto, trattandosi di questione di massima riguardante la composizione dei Collegi, ha ritenuto di rimettere l’affare al Presidente del Consiglio di Stato per la valutazione circa l’opportunità di investire l’Adunanza Plenaria.

Il Presidente del Consiglio di Stato in data 17 maggio 2013 ha, quindi, deferito la controversia all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 2, c.p.a.

DIRITTO

Com’è noto, con decisione 25 marzo 2009, n. 2, questa Adunanza plenaria, modificando l’indirizzo già prevalente nella giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. St., sez. VI, 4 aprile 2005, n. 1477; sez. V, 30 luglio 1082, n. 622) e allineandosi all’indirizzo accolto dalla sentenza della Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite, 27 febbraio 2008, n. n. 5087, ha riconosciuto che il dovere di astensione previsto dall’art. 51, n. 4, c.p.c., sussiste anche nei confronti del giudice chiamato a partecipare alla decisione della causa su cui si sia già pronunciato nello stesso grado di giudizio, e non solo nel caso in cui la seconda pronuncia intervenga in un nuovo e diverso grado di giudizio, in quanto le ragioni di garanzia della imparzialità e della terzietà del giudice valgono, allo stesso modo, in entrambi i casi (cfr. Corte Cost., 3 luglio 2002, n. 305).

Pertanto, mentre in passato, nel caso di regressione del processo al giudice di primo grado, si escludeva che il componente del collegio che avesse partecipato alla prima decisione versasse in posizione di incompatibilità per la nuova causa, successivamente, in adesione agli argomenti sviluppati dalle citate Sezioni Unite del 2008, questa Adunanza plenaria ha configurato l’obbligo di astensione nel caso di annullamento con rinvio.

L’Adunanza plenaria ha, dunque, aderito alla (nuova) linea interpretativa, secondo la quale l’alterità del giudice in sede di rinvio prosecutorio costituisce applicazione del principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione, che ha “pieno valore costituzionale in relazione a qualunque tipo di processo” (cfr.: Corte 21 marzo 2002 n. 78; Corte Cost. 3 luglio 2002 n. 305; Corte Cost. 22 luglio 2003 n. 262 cit.).

In questa direzione, ha, pertanto, affermato che l’esigenza di proteggere l’imparzialità del giudice impedisce che quest’ultimo possa pronunciarsi due volte sulla medesima res iudicanda, in quanto dal primo giudizio potrebbero derivare convinzioni precostituite sulla materia controversa, determinandosi così, propriamente, un “pregiudizio” contrastante con l’esigenza costituzionale che la funzione del giudicare sia svolta da un soggetto “terzo”, non solo scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto, ma anche sgombro da convinzioni formatesi in occasione dell’esercizio di funzioni giudicanti in altre fasi del giudizio (Corte Cost. 12 luglio 2002 n. 335; Corte Cost. 22 luglio 2003 n. 262 cit.).

Inoltre, ha pure osservato che negli ordinamenti processuali è avvertita l’esigenza di evitare la cd. forza della prevenzione, attraverso la predisposizione di meccanismi processuali capaci di garantire che il giudice non subisca condizionamenti psicologici tali da rendere probabile il venir meno della sua serenità di giudizio.

 

 

Facendo applicazione degli indicati principi, la decisione n. 2 del 2009 ha ritenuto fondato il primo motivo di appello, essendo risultato che del collegio che aveva adottato la decisione in sede di rinvio avevano fatto parte due magistrati - persone fisiche (uno dei quali nella veste di relatore in entrambe le pronunce) che avevano partecipato alla precedente sentenza e, pertanto, ha annullato la sentenza impugnata con rinvio al medesimo giudice di primo grado.

 

 

Sebbene la materia del contendere vertesse solo sul giudizio a seguito di annullamento con rinvio, tuttavia la decisione n. 2 del 2009 cit. ha affermato che il dovere di astensione si estende anche all’ipotesi in cui il giudice sia chiamato a pronunciarsi nuovamente sulla vertenza in seguito a ricorso per revocazione della precedente sentenza, riconoscendo che il dovere di astensione deve valere ad assicurare anche l’“immagine” dell’imparzialità del giudice, così da evitare che egli possa sembrare condizionato dalla precedente pronuncia resa nella medesima controversia.

Conclusione diversa, invece, è stata accolta per il giudizio di opposizione di terzo, per il quale la prefata decisione, n. 2/2009 cit., ha ricavato dall’art. 405 c.p.c. la regola secondo cui il giudice che ha partecipato alla deliberazione della sentenza oggetto di opposizione potrebbe legittimamente intervenire nella pronuncia sull’opposizione.

La decisione n. 2 del 2009 cit. ha, infine, confermato l’indirizzo consolidato secondo cui non sussiste alcuna incompatibilità nella partecipazione dello stesso giudice alla pronuncia in sede cautelare e alla pronuncia in sede di merito, data la diversità dei caratteri della cognizione nell’uno e nell’altro caso.

Ciò premesso, ad avviso di questo Collegio, l’indirizzo interpretativo espresso dalla decisione dell’Adunanza plenaria n. 2 del 2009, nella parte in cui, sia pure con un obiter dictum - atteso che la materia del contendere verteva solo sul giudizio a seguito di annullamento con rinvio - ha affermato un principio di diritto comunque capace di orientare la futura attività dei giudici amministrativi, escludendo che del giudizio di revocazione possa conoscere la stessa persona fisica - o le stesse persone fisiche, quali componenti del Collegio - che ha pronunciato la sentenza impugnata, a parte la sua condivisibilità o meno, appare, comunque, superato dal nuovo codice del processo amministrativo (c.p.a.).

E, invero, le affermazioni dell’anzidetta decisione non sono state trasfuse negli articoli 106 e 107 c.p.a., sebbene emanato a breve distanza di tempo.

Anzi, l’art. 106, secondo comma, c.p.a. afferma, al comma 2, che “La revocazione è proponibile dinanzi allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata”.

Naturalmente, dicendo “stesso giudice” la legge intende lo stesso “ufficio giudiziario”, e perciò deve ritenersi che la causa potrà essere affidata sia alla stessa e sia ad un’altra Sezione (cfr. Cass. 5 settembre 2006, n. 19041).

Nondimeno va ricordato che, a fronte della medesima espressione contenuta nell’art. 398, comma primo, c.p.c., secondo la giurisprudenza della Cassazione solo nel caso di revocazione per dolo del giudice (art. 395 n. 6 c.p.c.) non potrà far parte dell’organo giudicante la stessa persona fisica che ha emesso la sentenza revocanda, non sussistendo, negli altri casi, per il magistrato che ha pronunciato la sentenza impugnata per revocazione, alcuna incompatibilità a partecipare al giudizio di revocazione stesso (cfr. Cass., sez. lav., 12 settembre 2006, n. 19498).

Va altresì ricordato che nel processo civile ed amministrativo non sono applicabili le regole sulle incompatibilità soggettive del giudice fissate nel processo penale bensì soltanto le cause di astensione e ricusazione stabilite dal c.p.c..

La Corte costituzionale, con sentenza 15 ottobre 1999, n. 387, ha, infatti, ribadito che non sono applicabili al giudizio civile ed a quello amministrativo, proprio per la particolarità e le diversità dei sistemi processuali, le regole delle incompatibilità soggettive per precedente attività (tipizzata) svolta nello stesso procedimento penale, bensì le disposizioni sull’astensione e la ricusazione del codice di procedura civile, cui anche le norme proprie del processo amministrativo fanno rinvio: ciò in quanto il principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione ha pieno valore costituzionale con riferimento a qualunque tipo di processo, in relazione specifica al quale, peraltro, può e deve trovare attuazione, pur tuttavia con le peculiarità proprie di ciascun tipo di procedimento.

In tale circostanza, si è sottolineato che l’esigenza generale di assicurare che sempre il giudice rimanga, ed anche appaia, del tutto estraneo agli interessi oggetto del processo, viene assicurata nel processo civile solo attraverso gli istituti dell’astensione e ricusazione, che rinvengono il proprio supporto normativo nella previsione dell’art. 51, n. 4, cod. proc. civ.

Infatti, sul piano generale, esigenza imprescindibile, rispetto ad ogni tipo di processo, è solo quella di evitare che lo stesso giudice, nel decidere, abbia a ripercorrere l’identico itinerario logico precedentemente seguito; sicché condizione necessaria per dover ritenere una incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadano sulla stessa res iudicanda.

Senonché, come anche ripetutamente osservato dalla Corte di Cassazione, salva ovviamente l’ipotesi di dolo del giudice, non sussiste per i magistrati che avevano pronunciato la sentenza revocanda alcuna incompatibilità a partecipare alla decisione sulla domanda di revocazione, atteso che essa non predica, per sua natura, un errore di giudizio (Cass. nn. 2342/1962, 1624/1965, 2222/1987 e, da ultimo, Sez. lav., 12 settembre 2006, n. 19498).

Il principio trae giustificazione dalla circostanza che la decisione impugnata è dovuta ad un errore involontario del giudice, o talmente grossolano da risolversi in una svista; pertanto, il fatto che non sia possibile imputare al giudice un errore di giudizio comporta che allo stesso non sia addebitabile un pregiudizio tale da impedirgli, allorchè chiamato nuovamente a giudicare della materia controversa, di assumere una decisione senza essere condizionato da quella precedentemente resa (cfr. Cass., n. 19498/06 cit.).

Tale principio non trova – ripetesi - ovviamente applicazione nell’ipotesi di dolo del giudice (cfr. Cass. Sez. Un., n. 733 del 2005, in tema di revocazione delle sentenze del Consiglio di Stato; nonché Corte Conti, sez. I giur. centr. app., 24.3.2004, n. 120/A); detto caso rappresenta, invero, l’unica ipotesi di incompatibilità del magistrato a partecipare alla decisione sulla domanda di revocazione.

E, invero, in difetto di tempestiva ricusazione la violazione da parte del giudice dell’obbligo di astenersi nell’ipotesi prevista dall’art. 51 n. 4 c.p.c. (a cui rinvia espressamente l’art. 17 c.p.a.), non comporta la nullità della sentenza ex art. 158 c.p.c., al di fuori del caso in cui il giudice abbia un interesse proprio e diretto nella causa, in modo da porlo nella posizione sostanziale di parte (cfr. Cass., Sez. Un., 28.1.2002, n. 1007; Cass., 18.1.2002, n. 528; Cass., 22.6.2005, n. 13370; Cass., 29.3.2007, n. 7702).

Tale principio è perfettamente condivisibile, in quanto l’art. 111 Cost., nel fissare i principi fondamentali del giusto processo, ha demandato al legislatore ordinario di dettarne la disciplina anche attraverso gli istituti dell’astensione e della ricusazione, sancendo, come ha affermato la Corte Costituzionale (sent. 15.10.1999, n. 387 cit.), che, in considerazione della peculiarità del processo civile, fondato – come quello amministrativo – sull’impulso paritario delle parti – non è arbitraria la scelta del legislatore di garantire l’imparzialità-terzietà del giudice solo attraverso gli istituti dell’astensione e della ricusazione.

Ritiene, pertanto, questa Adunanza plenaria che, anche alla luce del nuovo codice del processo amministrativo, debba escludersi l’applicabilità della norma di cui all’art. 51 n. 4 c.p.c. - richiamata dalla norma di rinvio di cui all’art. 17 c.p.a. - che prevede l’obbligo del giudice di astenersi quando abbia conosciuto della causa in altro grado del processo, allorquando sia lo “stesso ufficio giudiziario” che ha reso la pronuncia oggetto di revocazione, competente a decidere nuovamente; ne consegue che, ad eccezione dell’ipotesi del dolo del giudice o, comunque, dell’ipotesi in cui il giudice abbia un interesse proprio e diretto nella causa, i magistrati che hanno pronunciato la sentenza impugnata per revocazione possono legittimamente far parte del collegio investito della cognizione del giudizio revocatorio.

Del resto, l’illegittima composizione dell’organo giudicante è ravvisabile solo ed esclusivamente nelle diverse ipotesi di alterazioni strutturali dell’organo medesimo per vizi di numero o qualità dei suoi membri, che ne precludono l’identificazione con quello delineato dalla legge (cfr. Cass., Sez. Un., 1.6.2006, n. 13034; analogamente è a dirsi con riguardo alla pronuncia del giudice contabile: Cass., Sez. Un., 13.7.2006, n. 15900).

Tanto premesso in ordine alla questione di massima rimessa a questa Adunanza plenaria, relativa alla valida costituzione dei Collegi chiamati a pronunciarsi nei giudizi di revocazione, può ora passarsi ad esaminare il merito del presente giudizio.

Occorre, però, preliminarmente precisare che il presente ricorso per revocazione, avente per oggetto l’impugnativa di un’ordinanza cautelare, deve ritenersi ammissibile, in quanto l’istituto della revocazione è suscettibile di applicazione anche all’ordinanza che pronuncia sulla domanda di sospensione dell’atto impugnato, essendo assimilabile, quanto ad efficacia decisoria, alla sentenza che definisce il merito (cfr. Cons. St., A.P., 20 gennaio 1978, n. 1 e 24 febbraio 1978, n. 6; Cons. St., sez. VI, ord. 23 settembre 2004, n. 4289).

Venendo dunque ad esaminare il merito della proposta revocazione, con essa il Ministero istante sostiene che l’ordinanza n. 855/2013 sarebbe frutto di un errore di fatto ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c., affermando che “il termine di trenta giorni di cui all’art. 116 co. 1 c.p.a. si riferisce all’impugnazione dei provvedimenti della p.a. in materia di accesso ... e non sembra che nella nozione di determinazioni possano ricomprendersi anche i provvedimenti giurisdizionali ... Il dimezzamento per il rito dell’accesso … comporta che la sentenza ... vada impugnata entro tre mesi, se non notificata, ovvero entro trenta giorni se notificata”.

Da quanto precede si evince chiaramente che l’Amministrazione non denuncia un errore di fatto, ma di giudizio e, quindi, di diritto (cfr. Cons. St., sez. III, 04/05/2012, n. 2558), con conseguente inammissibilità della istanza di revocazione proposta.

La giurisprudenza del Consiglio di Stato e quella della Corte di Cassazione, invero, hanno pressoché univocamente individuato le caratteristiche dell’errore di fatto revocatorio, che, ai sensi rispettivamente dell’art. 81 n. 4 del R.D. 17 agosto 1907, n. 642, ora dell’art. 106 c.p.a., e dell’art. 395, comma 4, c.p.c., può consentire di rimettere in discussione il contenuto di una sentenza, e ciò per evitare che il distorto utilizzo di tale rimedio straordinario dia luogo ad un inammissibile ulteriore grado di giudizio di merito, non previsto e non ammesso dall’ordinamento.

E’ stato, infatti, più volte ribadito che l’errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi delle citate disposizioni normative deve essere caratterizzato: a) dal derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato; b) dall’attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) dall’essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa (Cons. St., A.P., n. 1 del 2013 e n. 2 del 2010; sez. III, 1° ottobre 2012, n. 5162; 24 maggio 2012, n. 3053; sez. IV, 24 gennaio 2011, n. 503, 23 settembre 2008, n. 4607; 16 settembre 2008, n. 4361; 20 luglio 2007, n. 4097; e meno recentemente, 25 agosto 2003, n. 4814; 25 luglio 2003, n. 4246; 21 giugno 2001, n. 3327; 15 luglio 1999 n. 1243; C.G.A., 29 dicembre 2000 n. 530; sez. VI, 9 febbraio 2009, n, 708; 17 dicembre 2008, n. 6279; C.G.A., 29 dicembre 2000, n. 530; Cass. Civ., sez. I, 24 luglio 2012, n. 12962; 5 marzo 2012, n. 3379; sez. III, 27 gennaio 2012, n. 1197); l’errore deve inoltre apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche (C.d.S., sez. VI 25 maggio 2012, n. 2781; 5 marzo 2012, n. 1235)

L’errore di fatto revocatorio si sostanzia quindi in una svista o abbaglio dei sensi che ha provocato l’errata percezione del contenuto degli atti del giudizio (ritualmente acquisiti agli atti di causa), determinando un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa: esso pertanto non può (e non deve) confondersi con quello che coinvolge l’attività valutativa del giudice, costituendo il peculiare mezzo previsto dal legislatore per eliminare l’ostacolo materiale che si frappone tra la realtà del processo e la percezione che di essa ha avuto il giudicante, proprio a causa della svista o abbaglio dei sensi (Cons. St., sez. III, 1° ottobre 2012, n. 5162; sez. VI, 2 febbraio 2012, n. 587; 1 dicembre 2010, n. 8385).

Pertanto, mentre l’errore di fatto revocatorio è configurabile nell’attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al significato letterale (senza coinvolgere la successiva attività d’interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai fini della formazione del convincimento), esso non ricorre nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali ovvero di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo se mai ad un errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione (che altrimenti si trasformerebbe in un ulteriore grado di giudizio, non previsto dall’ordinamento, Cons. St., sez. III, 8 ottobre 2012, n. 5212; sez. V, 26 marzo 2012, n. 1725; sez. VI, 2 febbraio 2012, n. 587; 15 maggio 2012, n. 2781; 16 settembre 2011, n. 5162; Cass. Civ., sez. I, 23 gennaio 2012, n. 836; sez. II, 31 marzo 2011, n. 7488).

Inoltre, l’articolo 395 n. 4 c.p.c. prevede che sussiste errore di fatto se "il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare".

Nel caso di specie, tuttavia, il fatto sul quale si pretende di fondare l’errore revocatorio è stato proprio il punto decisivo sul quale il Collegio ha fondato la propria decisione di tardività dell’appello, accogliendo la specifica eccezione sollevata dalla parte appellata.

In base alle suesposte considerazioni, la presente istanza di revocazione è, pertanto, inammissibile.

Sussistono, tuttavia, giusti motivi per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese, competenze ed onorari del presente giudizio di revocazione.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), definitivamente pronunciando sul ricorso per revocazione, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 ottobre 2013 con l’intervento dei magistrati:

 

 

Giorgio Giovannini, Presidente

Riccardo Virgilio, Presidente

Stefano Baccarini, Presidente

Alessandro Pajno, Presidente

Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente di sezione

Marzio Branca, Consigliere

Aldo Scola, Consigliere

Vito Poli, Consigliere

Francesco Caringella, Consigliere

Maurizio Meschino, Consigliere

Nicola Russo, Consigliere, Estensore

Salvatore Cacace, Consigliere

Bruno Rosario Polito, Consigliere

 

 

 

 

     
     
IL PRESIDENTE
     
     
     
L'ESTENSORE   IL SEGRETARIO
     
     
     
     
     

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 24/01/2014

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Il Dirigente della Sezione

In caso di accoglimento del ricorso per motivi di incompetenza, il giudice “annulla l'atto e rimette l'affare all'autorità competente”

T.A.R. Lazio, sez. II, sentenza n. 2631 del 07 gennaio 2014
Data: 
07/01/2014
Tipo di Provvedimento: 
Sentenza
Materia: 
art. 34 c.p.a.

Nonostante il codice del processo amministrativo non abbia riprodotto la disposizione contenuta nella l. n. 1034/71 secondo cui, in caso di accoglimento del ricorso per motivi di incompetenza, il giudice “annulla l'atto e rimette l'affare all'autorità competente” (art. 26, comma 2), tuttavia il principio appena evidenziato, della preclusione dell’esame di ogni motivo di ricorso afferente al merito della causa in presenza di un vizio-motivo di incompetenza, ha comunque trovato espresso riconoscimento nell’art. 34, comma 2, primo periodo, del codice, secondo cui “In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”.

 

N. 00086/2014 REG.PROV.COLL.

N. 02631/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2631 del 2013, proposto da: 
Fabrizio Gianni, rappresentato e difeso dall'avv. Maria Claudia Ioannucci, ed elettivamente domiciliato presso lo studio del difensore in Roma, via Maria Adelaide, 12; 

contro

Roma Capitale, rappresentata e difesa dall’avv. Angela Raimondo, con la quale domicilia in Roma, via Tempio di Giove, 21 presso l’Avvocatura capitolina; 

per l'annullamento

- della determinazione dirigenziale n. 3876 in data 22.01.2013, notificata in data 04.02.2013, con cui è fatto ordine al sig. Gianni Fabrizio, quale proprietario, di provvedere alla rimozione dei rifiuti di qualsiasi specie presenti nella “suddetta area”, ed al ripristino dello stato dei luoghi, nonché per l’annullamento di ogni altro atto attualmente sconosciuto e comunque connesso, collegato, precedente, presupposto e conseguenziale, ivi compreso, ove occorresse, il rapporto amministrativo prot. n. 230801 del 19.12.2012, redatto dalla Polizia Roma Capitale U.O. Sicurezza pubblica ed Emergenziale.

 

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore alla pubblica udienza del giorno 4 dicembre 2013 il Cons. Silvia Martino;

Uditi gli avv.ti, come da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

 

FATTO e DIRITTO

1. Il ricorrente è proprietario dei terreni siti in Roma, località Salone, distinti al catasto in foglio 660, n. 57, 171, 139, 339, 584, 586, 590 595, 601 della superficie di Ha 5.84.83..

Con ordinanza del 7.7.1997 il Prefetto di Roma ha disposto la requisizione di un’area adiacente ai terreni sopra specificati per consentire al Comune di Roma di allocarvi un campo nomadi, per non più di 300 persone.

E’ tuttavia accaduto che l’amministrazione capitolina abbia allocato sulle aree originariamente requisite circa 1200 nomadi, invece dei previsti 300, con la conseguenza che tale insediamento si è progressivamente dilatato finendo con lo sconfinare nei terreni adiacenti.

Parte ricorrente rappresenta che, di fatto, il Comune ha stabilizzato l’insediamento abusivo realizzando servizi igienici e altri manufatti, che avrebbero modificato irrimediabilmente l’orografia dei terreni.

Il ricorrente, peraltro, ha inoltrato numerosi atti di diffida al Comune, per la restituzione dell’area abusivamente occupata, i quali, tuttavia, sono rimasti senza riscontro, inducendolo ad adire l’a.g.o..

Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 25580/2006, ha accertato l’abusiva occupazione da parte dell’amministrazione, nonché la sua responsabilità per la devastazione e l’inquinamento delle aree.

Conseguentemente, ha condannato la p.a. a corrispondere al dott. Gianni l’indennità di occupazione e quanto necessario per il risanamento del terreno.

La sentenza di primo grado è stata poi confermata dalla Corte d’Appello con sentenza n. 5190 del 2011, passata in giudicato.

I terreni, tuttavia, non gli sarebbero mai stati restituiti, costringendo ad adire nuovamente il Tribunale di Roma per ottenere la condanna di Roma Capitale alla formale riconsegna dei beni di sua proprietà ed al risarcimento dei danni.

Nonostante la pendenza di tale ulteriore azione, e nonostante le ulteriori, plurime diffide, l’amministrazione non ha ancora riconsegnato i beni occupati, che continuerebbe a detenere con totale incuria.

E’ poi accaduto che, in data 14.12.2012, l’area sia stata fatta oggetto di un sequestro preventivo da parte del Gip del Tribunale di Roma, proprio a causa della situazione di crescente degrado.

In questo contesto, il 4 febbraio 2013, parte ricorrente si è vista notificare la determinazione dirigenziale impugnata, avverso la quale deduce:

1. VIOLAZIONE DELL’ART. 192 DEL D.LGS. N. 192/2006. VIOLAZIONE DELL’ART. 97 DELLA COSTITUZIONE. ECCESSO DI POTERE PER FALSA PRESUPPOSIZIONE DEI FATTI. TRAVISAMENTO. DIFETTO DI ISTRUTTORIA. INGIUSTIZIA MANIFESTA.

L’amministrazione non avrebbe tenuto conto dello stato di abusiva occupazione da parte dello stessa Roma Capitale, delle aree, nonché di tutti i danni già causati dalle condotte colpose dello stesso Comune, accertate in sede civile.

Le aree, inoltre, non sarebbero mai tornate nel pieno possesso del ricorrente, di talché è alla stessa amministrazione che spetterebbe realizzare sia le opere per il ripristino dello stato dei luoghi sia quelle necessarie a prevenire lo sversamento abusivo di rifiuti.

2) VIOLAZIONE DELL’ART. 192, COMMA 3, D.LGS. N. 192/2006. INCOMPETENZA.

La disposizione in rubrica prevede espressamente che sia il Sindaco ad adottare l’ordinanza di rimozione e ripristino. Essa, in quanto posta da una norma speciale successiva, prevale sulla normativa generale di cui all’art. 107 del Tuel.

3) VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 7 E 8 L. N. 241/90. VIOLAZIONE DELL’ART. 192, COMMA 3, DEL D.LGS. N. 152/2006.

Ad ogni buon conto, il provvedimento è stato adottato in assenza di qualsivoglia contraddittorio con il proprietario. Invero, se Roma Capitale avesse preventivamente trasmesso la comunicazione di avvio del procedimento al ricorrente, questi avrebbe fornito sicuramente elementi utili a farla desistere dal proprio intento.

In particolare, il dr. Gianni avrebbe potuto far presente di non avere più né il possesso né la detenzione dei terreni e che, comunque, la situazione di inquinamento è addebitabile all’incuria della stessa amministrazione.

4. VIOLAZIONE DELL’ART 192 DEL D.LGS. N. 192/2006. DIFETTO DI ISTRUTTORIA. CARENZA DI MOTIVAZIONE.

Comunque, nel provvedimento, non si deducono né si provano quali profili di responsabilità, a titolo di dolo, ovvero di colpa, ricadrebbero sul dr. Gianni.

In particolare, per quanto riguarda la circostanza della mancanza di recinzione, parte ricorrente evidenzia coma la chiusura del fondo costituisca, per il proprietario, una mera facoltà.

Si è costituita, per resistere, Roma Capitale.

Con ordinanza n. 1798/2013, l’istanza cautelare è stata accolta.

Le parti hanno depositato documenti e memorie, in vista della pubblica udienza del 4.12.2013, alla quale il ricorso è stato introitato per la decisione.

2. E’ possibile prescindere dall’eccezione di tardività del deposito documentale effettuato da Roma Capitale il 25.11.2013, in quanto il ricorso è fondato e deve essere accolto.

In particolare, riveste carattere decisivo il vizio di incompetenza.

Infatti, l’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006 attribuisce espressamente al Sindaco la competenza a disporre con ordinanza le operazioni necessarie alla rimozione e allo smaltimento dei rifiuti, previste dal comma 2.

Tale previsione, sulla base degli ordinari criteri preposti alla soluzione delle antinomie normative (criterio della specialità e criterio cronologico), prevale sul disposto dell’art. 107, comma 5, del d.lgs. n. 267/200 (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 29.8.2012, n. 4635).

Poiché dunque, in materia, vi è una competenza esclusiva del Sindaco (che non consta abbia, nel caso di specie, specificamente delegato i propri poteri alla dirigenza di Roma Capitale), la determinazione dirigenziale impugnata è viziata per incompetenza e deve essere annullata.

2.1. Ciò posto, è bene precisare che, in assenza di graduazione dei motivi di ricorso, il vizio di incompetenza riveste carattere “assorbente”.

In primo luogo, anche dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo è ancora valido il principio generale secondo cui “l’accoglimento di un vizio-motivo di incompetenza dell’organo che ha provveduto è, intrinsecamente e necessariamente, assorbente di ogni altro vizio-motivo dedotto nel ricorso; giacché tale vizio accolto, per la sua stessa natura, inficia tutti gli atti successivi, che inevitabilmente dovranno essere reiterati dall’organo competente (o, se si tratti di un collegio, da quello correttamente costituito), e ciò, ovviamente, senza che la successiva attività, cognitiva e valutativa, di quest’ultimo possa in alcun modo risultare pregiudicata (nel senso, etimologico, di “pre- giudicata”) da quella in precedenza svolta dall’organo incompetente” (così, in termini, CGA, 6 marzo 2012, n. 273)

L’unica eccezione, rispetto a ciò, può verificarsi nei casi in cui la parte ricorrente abbia espressamente graduato l’ordine di esame dei motivi di ricorso in modo diverso (come pure è in sua facoltà, stante la natura soggettiva della giurisdizione amministrativa e la conseguente disponibilità di parte dei motivi di ricorso); ma, anche in tal caso, la subordinazione dell’esame del motivo di incompetenza agli altri di merito non può che intendersi come una rinuncia del ricorrente a far valere il vizio di incompetenza, per l’ipotesi che il giudice ritenga fondati gli altri motivi di cui si è chiesto l’esame in via principale (così, ancora, la decisione n. 273/2012).

Non è questo però il caso di cui si verte, in cui, dall’esposizione ricorsuale, non è riscontrabile alcuna forma di graduazione e/o subordinazione dei motivi di gravame.

Va ancora soggiunto che, nonostante il codice del processo amministrativo non abbia riprodotto la disposizione contenuta nella l. n. 1034/71 secondo cui, in caso di accoglimento del ricorso per motivi di incompetenza, il giudice “annulla l'atto e rimette l'affare all'autorità competente” (art. 26, comma 2), tuttavia il principio appena evidenziato, della preclusione dell’esame di ogni motivo di ricorso afferente al merito della causa in presenza di un vizio-motivo di incompetenza, ha comunque trovato espresso riconoscimento nell’art. 34, comma 2, primo periodo, del codice, secondo cui “In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”.

E’ poi evidente che la “prima sede” per l’esercizio del potere amministrativo, rispetto a cui è vietata la cognizione preventiva del giudice, è soltanto quella in cui agisca l’organo dichiarato competente.

3. Per tutto quanto appena argomentato, il ricorso deve essere accolto.

Le spese seguono come di regola la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sede di Roma, sez. II^, definitivamente pronunciando sul ricorso, di cui in premessa, lo accoglie e, per l’effetto annulla la determinazione dirigenziale impugnata.

Condanna l’amministrazione soccombente alla rifusione delle spese di giudizio che si liquidano in euro 1.500,00 (millecinquecento/00), oltre agli accessori, se dovuti, come per legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 dicembre 2013 con l'intervento dei magistrati:

Luigi Tosti, Presidente

Salvatore Mezzacapo, Consigliere

Silvia Martino, Consigliere, Estensore

 

   

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

   

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 07/01/2014

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Quando l'annullamento di un provvedimento impugnato, ex art.34 c.p.a., non risulta più utile per il ricorrente è necessaria la domanda di parte

Tar Campania, sez. I, sentenza n. 5744/2013
Data: 
13/12/2013
Tipo di Provvedimento: 
Sentenza
Materia: 
art. 34 co. 3 c.p.a.

Poiché il giudice possa ex art. 34, co. 3 c.p.a. accertare ai soli fini risarcitori la legittimità di un provvedimento già impugnato ma per i quali è venuto meno l’interesse all’annullamento, è necessaria la domanda di parte.

 

N. 05744/2013 REG.PROV.COLL.

N. 00281/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 281 del 2013, proposto da: 
Francesco Daniele, Eduardo D'Urso, Floriana Giannetto, Mercedes Gobbo, Marina Lupo, Lucio Mauro, Edvige Nastri, Stefano Pisani, Eduardo Russo, Pasqualina Sigillo, Maria Carmen Villani, rappresentati e difesi dagli avv. Manuela Mazzi, Francesco Cafiero De Raho, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Napoli, piazza Bovio, n. 33;

contro

Comune di Napoli, rappresentato e difeso per legge dagli avv. Giuseppe Dardo, Fabio Maria Ferrari, Anna Pulcini, domiciliata in Napoli, piazza Municipio; 

per l'annullamento

- della deliberazione di Giunta Municipale n. 839 del 19 novembre 2012 di approvazione in linea tecnica de piano particolareggiato del traffico “Interventi per la mobilità sostenibile: ZTL del Mare e ZTL Quartieri Spagnoli-Tarsia Pignasecca” ed istituzione delle relative ZTL;

- della connessa ordinanza sindacale n. 603 del 27 novembre 2012 di istituzione di un dispositivo straordinario di limitazione del traffico in alcune strade del Centro e di Chiaia dal 1° dicembre 2012 al 31 marzo 2013.

- di tutti gli atti connessi.

 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Napoli;

Viste le memorie difensive e tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 dicembre 2013 il dott. Michele Buonauro e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

I ricorrenti, che risiedono in zona Posillipo, limitrofa alla zona preclusa al traffico veicolare, impugnano la deliberazione di Giunta Municipale n. 839 del 19 novembre 2012 di istituzione delle ZTL del Mare e ZTL Quartieri Spagnoli-Tarsia Pignasecca e la connessa ordinanza sindacale n. 603 del 27 novembre 2012 di istituzione di un dispositivo straordinario di limitazione del traffico in alcune strade del Centro e di Chiaia dal 1° dicembre 2012 al 31 marzo 2013.

L’impugnativa è affidata ad una serie di censure attinenti alla violazione del giusto procedimento, alla violazione del codice della strada (d.lgs. n. 285/1992), delle circolari ministeriali e della legge sul procedimento amministrativo (legge n. 241/1990), alla violazione dei principi costituzionali della libertà personale e della libera circolazione, nonché all’eccesso di potere sotto svariati profili.

Il Comune di Napoli, costituitosi in giudizio, eccepisce nei propri scritti difensivi l’inammissibilità e l’infondatezza del gravame.

Con ordinanza n. 194 del 2013 la richiesta cautelare è stata respinta.

All’udienza pubblica del 20 novembre 2013, su istanza del difensore di parte ricorrente, la causa è stata rinviata all’udienza del 4 dicembre 2013, nella quale è trattenuta per la decisione.

DIRITTO

1. Possono tralasciarsi le eccezioni di rito, poiché il ricorso è divenuto improcedibile.

1.1. Nella presente evenienza processuale è contestata la legittimità dell’ordinanza sindacale n. 603 del 27 novembre 2012 di istituzione di un dispositivo straordinario di limitazione del traffico in alcune strade del Centro e di Chiaia dal 1° dicembre 2012 al 31 marzo 2013, in attuazione del nuovo piano particolareggiato del traffico approvato con deliberazione di Giunta Municipale n. 839 del 19 novembre 2012.

Per una migliore comprensione della vicenda contenziosa, si premette che la gravata ordinanza, emanata in attuazione della delibera di Giunta Comunale n. 839 citata, è stata emanata in linea di continuità con l’ordinanza sindacale n. 308 del 22 marzo 2012, di istituzione di un dispositivo straordinario di limitazione del transito in alcune strade del centro storico per lo svolgimento dell’ "America's Cup World Senes", che ha comportato la modifica di alcuni sensi di circolazione, l’istituzione di una Zona a traffico Limitato e di un'Area Pedonale urbana in via Caracciolo e via Partenope. Con ordinanza sindacale n. 476 dell' 11/05/2012 tale dispositivo straordinario di traffico veniva prorogato fino al 30.11.2012.

Alla detta ordinanza n. 476 facevano seguito un'ulteriore ordinanza di integrazione, la n. 544 del 24/05/2012, e le ordinanze n. 545 e 618 del 13/06/2012.

Infine, con la deliberazione di Giunta Comunale n. 839 del 21.11.2012, la Giunta Comunale approvava un piano particolareggiato del traffico, che trovava sostanzialmente la sua espressione nell'ordinanza sindacale n. 603 del 27.11.2012, con la quale i dispositivi di traffico di cui alle ordinanze precedenti venivano sia prorogati che integrati.

A seguito del crollo di un palazzo alla Riviera di Chiaia, il Sindaco ha emanato un’altra ordinanza (n. 303 del 4.3.2013, integrato con successive ordinanze nn. 434, 443 e 622 del 2013) con la quale riapriva al traffico veicolare una parte del Lungomare di via Caracciolo con le modalità di percorrenza e nell'estensione espressamente specificati ed istituiva il divieto di transito lungo la Riviera di Chiaia.

2. Ciò premesso, vale subito evidenziare che l’atto impugnato ha oramai esaurito i propri effetti al 31 marzo 2013, onde, tenuto anche conto della mancata impugnazione della ordinanze successive in materia, non è più predicabile un attuale interesse alla decisione nel merito della controversia.

Ne consegue la declaratoria di improcedibilità del ricorso.

3. Tuttavia una volta dichiarata l’improcedibilità della domanda originaria, occorre verificare se sussistono i presupposti per proseguire il giudizio ai soli fini dell’accertamento autonomo della asserita illegittimità dell’atto.

3.1. L'art. 34, comma 3, c.p.a. dispone che, qualora nel corso del giudizio l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il "giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori".

Espressamente, dunque, il codice di rito contempla la possibilità di una azione di mero accertamento, con tale espressione intendendosi le ipotesi in cui l’accertamento, anziché limitarsi a momento logico propedeutico al giudizio sulle altre azioni di cognizione (di condanna e costitutiva), esaurisce in sé lo scopo del processo. Con la particolarità che qui l’incisione della situazione giuridica sostanziale non consiste nella condizione di incertezza, obiettiva e pregiudizievole, originata dalla contestazione di controparte, che si intende con l’azione di mero accertamento eliminare. L’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), piuttosto, è integrato dalla necessità di economizzare un giudizio già instauratosi (ma destinato a concludersi in rito, per via di sopravvenienze), deragliandone il percorso in funzione dell’accertamento di una parte (quella riferita alla illegittimità dell’atto) dei fatti costituitivi necessari ai fini dell’accoglimento della (eventuale) azione risarcitoria (in sostanza, dall’annullamento dell’atto si passa ad una sentenza generica su di una frazione dell’an della pretesa risarcitoria).

3.2. Precisato che l’ipotesi prefigurata dall’art. 34, comma 3, non concreta una mera riqualificazione della domanda originaria, il passaggio dall’azione di annullamento a quella di mero accertamento determina una modificazione (non degli effetti processuali della domanda originaria, bensì) degli effetti sostanziali scaturenti dal giudicato. Se, tuttavia, non può parlarsi di domanda implicita (ovvero contenuta in quella di annullamento), neppure siamo in presenza di una mutatio libelli.

Per tale via, infatti, non viene introdotta una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria; il mero accertamento dei vizi, in luogo dell’annullamento, non introduce né un petitum diverso e più ampio, né una causa petendi fondata su fatti costitutivi differenti. Piuttosto (stando alle classificazioni tradizionali), deve parlarsi di meraemendatio, la quale non pone al giudice un nuovo tema d’indagine e neppure sposta i termini della controversia, ma si concreta esclusivamente nella variazione in senso riduttivo del petitum originario, al fine di renderlo adeguato alle sopraggiunte necessità di soddisfacimento del bisogno di tutela: in definitiva, modificandosi l’utilità perseguita (l’oggetto mediato trascorre dalla tutela specifica a quella per equivalente) in relazione alla originaria richiesta di provvedimento giurisdizionale (oggetto immediato), quest’ultimo viene soltanto variato nella sua estensione (cfr. Tar Lombardia - Milano, Sez. I - 24 ottobre 2013 n. 2367).

3.3. In questa cornice tra i presupposti della conversione dell’azione di annullamento in mero accertamento non può mancare una esplicita istanza di parte, quanto meno sub specie di una espressa "manifestazione" di interesse del ricorrente a fini risarcitori.

In primo luogo, tale espressa manifestazione di interesse rientra tra i presupposti della tutela giurisdizionale contenziosa di mero accertamento: difatti, considerato che il processo non può essere utilizzato in vista della mera previsione di possibili effetti pregiudizievoli per la parte, occorre che la parte prospetti l’esigenza concreta di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile.

Inoltre, per quanto la domanda originaria risulti mutata soltanto in senso riduttivo, occorre sottolineare che, tra la dichiarazione di improcedibilità ed il mero accertamento della fondatezza dei vizi, non vi è alcuna continenza effettuale, ben potendo la parte preferire (ai fini, ad esempio, delle spese processuali) la chiusura in rito del giudizio ad una pronuncia che (se negativa) potrebbe rivelarsi per la parte in vario modo controproducente.

Avuto riguardo, poi, alla esigenza di economia dei giudizi, contraddice frontalmente il principio di ragionevole durata che il giudice, in mancanza (non della dimostrazione, ma quantomeno) della seria prospettazione di un danno, sia sempre e comunque obbligato a procedere in via di extrapetizione, rischiando di portare a compimento un giudizio non sorretto da alcuna sostanziale "pretesa".

La conversione ufficiosa si pone, poi, in spregio al principio della domanda (di cui all’art. 112 c.p.c., operante nel processo amministrativo in forza dell’art. 39 c.p.c.), a sua volta correlato ai canoni di imparzialità e terzietà del giudice; ciò tenuto peraltro conto che, nel processo civile, la precisazione della domanda richiede l’indefettibile iniziativa di parte (cfr. art. 183, c.p.c.).

La manifestazione espressa di interesse alla prosecuzione del giudizio (la quale, è utile precisare, salvo il caso in cui sia formulata nel ricorso introduttivo in via subordinata, non abbisogna di atto notificato, considerato che trattasi di mera precisazione della domanda originaria), invero, consente anche il rispetto del contraddittorio (formatosi sulla sola domanda originaria).

3.4. Nel caso di specie, sebbene non vi sia una chiara manifestazione di interesse nei sensi sopra precisati, il tenore del comportamento processuale tenuto dalla difesa della ricorrente (la quale, a fronte di una specifica interlocuzione sul punto, ha insistito per una decisione nel merito) può essere considerato tale da legittimare l’accertamento incidentale ai sensi dell’articolo 34 C.p.a.

4. A questi fini il ricorso deve ritenersi in ogni caso destituito di fondamento.

4.1. In linea generale, i provvedimenti limitativi della circolazione stradale nei centri abitati e istitutivi di zone a traffico limitato sono espressione di scelte latamente discrezionali, devolute alla esclusiva competenza decisionale dell’autorità amministrativa e non suscettibili di sindacato di merito in sede giurisdizionale in ordine alla congruità delle scelte operate nella composizione e nel bilanciamento dei diversi interessi coinvolti, a meno che non si palesino vizi di forma o di procedura, ovvero che non emerga una manifesta irragionevolezza; inoltre, va rimarcato che la parziale compressione della libertà di locomozione e di iniziativa economica è sempre giustificata quando scaturisce dall’esigenza di tutela rafforzata di patrimoni culturali ed ambientali di assoluto rilievo mondiale o nazionale, tenendo presente che la gravosità delle limitazioni trova comunque giustificazione nel valore primario ed assoluto riconosciuto dalla Costituzione all’ambiente, al paesaggio ed alla salute (orientamento consolidato: cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. V, 13 febbraio 2009 n. 825; TAR Campania Napoli, Sez. I, 18 marzo 2013 n. 1509).

Sennonché nella specie non è palesemente irragionevole che i problemi di traffico nel centro di una città con alta densità abitativa come Napoli siano affrontati ponendo limitazioni al transito dei veicoli privati, in ragione degli effetti sulla sicurezza della circolazione, sulla salute, sull’ordine pubblico e sul patrimonio ambientale e culturale, anche alla luce della circostanza, pacificamente evidenziata dalla difesa comunale, che lo stesso centro antico di Napoli è inserito nella lista dei luoghi “Patrimonio dell’Umanità” tutelati dall’UNESCO, e la contigua zona del lungomare, in linea con la complessiva unicità della città, si connota per una sua esclusiva dimensione paesaggistica.

Né peraltro il diritto di circolazione del cittadino, costituzionalmente garantito, si pone necessariamente in conflitto con i suddetti interessi pure di rilevanza costituzionale, posto che le limitazioni riguardano esclusivamente l’utilizzo del veicolo privato, con l’intenzione semmai di garantire una migliore e più sostenibile fruizione degli ambienti urbani.

4.2. Viene dedotta, poi, la violazione del principio di ragionevolezza sotto il profilo dell’omessa previsione della possibilità di accesso veicolare da parte dei residenti in zone limitrofe, costretti a percorsi tortuosi che aggravano, anziché alleggerire, l’impatto dell’inquinamento da traffico veicolare.

Il rilievo non convince.

Non sembra che la disciplina introdotta dalla gravata ordinanza sindacale abbia in concreto conculcato il diritto alla circolazione veicolare dei residenti, degli abitanti in zone limitrofe e degli operatori commerciali che esercitino o abbiano clientela nella zona interdetta.

Difatti, nella stessa ordinanza sono previste svariate ipotesi di esenzione dal divieto di transito dedicate, tra l’altro, ad una serie di tipologie di mezzi, purché muniti di contrassegno comunale (veicoli dei residenti; veicoli dei domiciliati; veicoli per il trasporto merci: aziende che hanno la sede sociale all’interno della ZTL e trasporto merci per servizi interni alla ZTL; veicoli intestati a società ed aziende erogatrici di pubblici servizi; veicoli dei clienti delle autorimesse; veicoli dei clienti delle autofficine).

L’ampia rosa di eccezioni al divieto è sufficiente a coprire le più diverse esigenze di mobilità veicolare dei residenti e degli operatori commerciali nelle fasce orarie interdette, mentre coloro i quali, come i ricorrenti, abitano in una zona limitrofa, hanno comunque a disposizione itinerari alternativi, i quali, sebbene più onerosi, non sono tali da configurare un impedimento serio e reale alla circolazione.

Pertanto, la censura merita di essere disattesa non solo perché tende inammissibilmente ad impingere il merito delle scelte discrezionali dell’amministrazione, ma anche perché il bilanciamento tra esigenze privatistiche di mobilità veicolare ed interesse pubblico alla salvaguardia dell’assetto ambientale e paesaggistico del lungomare risulta adeguatamente garantito dalle fattispecie di esenzione dal divieto di circolazione sopra descritte.

4.4. Parimenti infondata è la censura relativa alla invalidità degli atti di programmazione alla base dell’intervento di istituzione della ZTL.

Secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale (cfr. per es. da ultimo Corte Giust. Amm. Regione Sicilia Sent. n. 144 del 5.2.2010 e TAR Catanzaro Sez. II Sent. n. 211 dell’11.2.2011) la mancata adozione del Piano Urbano del Traffico ex art. 36 D.Lg.vo n. 285 del 1992 non impedisce la decisione dell’istituzione della ZTL di cui agli artt. 3, comma 1, n. 54, e 7, comma 9, D.Lg.vo n. 285/1992 sia perché tali norme non prevedono la necessaria propedeuticità del Piano Urbano del Traffico rispetto alla ZTL, sia perché diversamente dovrebbe ritenersi che, in assenza di detto Piano, la circolazione stradale debba rispondere a criteri di assoluta anarchia.

Invece ciò che rileva è che i provvedimenti di istituzione delle Zone a Traffico Limitato non siano palesemente irragionevoli; mentre ai sensi della Circolare Ministero Lavori Pubblici n. 3816 del 21.7.1997, attuativa dell’art. 7, comma 9, terzo periodo, D.Lg.vo n. 285/1992, la previa adozione del Piano Urbano del Traffico risulta necessaria solo per l’ipotesi in cui i Comuni vogliano subordinare l’accesso alle ZZ.TT.LL. al pagamento di somme/pedaggi.

Tali considerazioni valgono a maggior ragione nel caso di specie, dove i ricorrenti hanno dedotto soltanto che nel precedente Piano Urbano del Traffico, adottato dal Comune, non si faceva riferimento alla chiusura del lungomare e delle arterie primarie della città, fra cui dovrebbe essere inserita, a parere dei ricorrenti, anche tale strada.

L’art. 7, nono comma, del d.lsg. n. 295/1982, infatti, in deroga alle previsioni di cui al successivo art. 107, attribuisce alla Giunta Municipale (e al Sindaco in caso di urgenza) la competenza per la delimitazione di aree pedonali e le zone di traffico limitato.

La mancata adozione del Piano Urbano del Traffico di cui all’art. 36 del d.lgs. n. 295/1982 non rende di per sé illegittima l’istituzione di un’isola pedonale ai sensi del precedente art. 7, nono comma.

Invero, ai sensi del citato art. 36, quarto comma, i piani del traffico sono “finalizzati ad ottenere il miglioramento delle condizioni di circolazione e della sicurezza stradale, la riduzione degli inquinamenti acustico ed atmosferico ed il risparmio energetico, in accordo con gli strumenti urbanistici vigenti e con i piani di trasporto e nel rispetto dei valori ambientali, stabilendo le priorità e i tempi di attuazione degli interventi”.

La mancata adozione del Piano Urbano del Traffico, tuttavia, non rende illegittima qualsiasi “regolamentazione della circolazione nei centri abitati” (art. 7 del d.lgs. n. 295/1982), dovendo altrimenti concludersi nel senso che, in difetto del Piano Urbano del Traffico, la circolazione stradale debba rispondere a criteri di assoluta anarchia.

Pertanto, deve ritenersi che nella fattispecie in esame non è stato violato il principio di programmazione, tenuto anche conto che l’omesso aggiornamento biennale del PUT non vale ad incrinarne la durevole portata precettiva.

È bensì vero che la direttive ministeriali citate, emanate ex art. 36 del D. L.gs. n. 285/1992, fanno obbligo:

- di adottare entro un anno dalle Direttive il PGTU;

- di portarlo completamente in attuazione nei due anni successivi attraverso la redazione dei relativi piani particolareggiati ed esecutivi;

- di provvedere all’aggiornamento del PUT per ciascuno dei bienni successivi con un anno di tempo per l’adozione delle sue varianti e l’anno susseguente per l’attuazione dei relativi interventi.

Tuttavia l’inosservanza di queste scansioni temporali, previste al fine di caratterizzare in senso dinamico la regolamentazione dell’assetto della viabilità urbana, non paralizzano l’efficacia della regolamentazione pregressa, la quale, per sua natura, è destinata ad avere efficacia durevole fino ad una espressa e specifica rimodulazione della relativa programmazione.

5. In conclusione la domanda di annullamento del provvedimento impugnato deve essere dichiarata improcedibile, con compensazione delle spese in ragione della peculiarità della controversia.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara improcedibile. Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 4 dicembre 2013 con l'intervento dei magistrati:

Cesare Mastrocola, Presidente

Pierluigi Russo, Consigliere

Michele Buonauro, Consigliere, Estensore

 

   

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

   

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 13/12/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Amministrazione contumace: il Giudice può decidere di condannarla alle spese del giudizio.

C.G.A. sez.IIII, sentenza n.5709 del 28 novembre 2013
Data: 
28/11/2013
Tipo di Provvedimento: 
Sentenza
Materia: 
Condanna alle spese del giudizio

Il Collegio non può condividere l’affermazione del T.A.R., secondo cui dalla mancata costituzione in giudizio dell’Amministrazione soccombente discenderebbe che nulla dovrebbe disporsi circa le spese di giudizioIn linea di massima, anche nel regime di regolazione previsto dall’art. 26 c.p.a., sussistono margini di apprezzamento discrezionale riservati al giudice del merito circa il riparto delle spese di lite (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 9 febbraio 2011, n. 872).

 

N. 05709/2013REG.PROV.COLL.

N. 03944/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 3944 del 2013, proposto da: 
Carlo Thrull, rappresentato e difeso dall'avv. Giunio Massa, con domicilio eletto presso Erica Deuringer in Roma, via Polibio, 45; 

contro

Ministero della Giustizia, non costituito 

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE I n. 10180/2012, resa tra le parti, concernente esecuzione del giudicato di cui alla sentenza della Corte suprema di cassazione n.8521/10 - pagamento somme per indennizzo ai sensi della legge 89/2001 (legge Pinto)

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 5 novembre 2013 il Cons. Giuseppe Castiglia e udito per la parte appellante l’Avv. Massa;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Il signor Carlo Thrull ha agito in giudizio per ottenere l’equo indennizzo previsto dalla legge n. 89 del 2001, a seguito dell’eccessiva durata di un procedimento penale.

La domanda è stata accolta dalla Corte di cassazione con sentenza 9 aprile 2010, n. 8521.

Nell’inerzia dell’Amministrazione, il signor Thrull ha proposto ricorso per l’esecuzione del giudicato, accolto dal T.A.R. per il Lazio, sez. I, con sentenza 6 dicembre 2012, n. 10180.

Contro la sentenza il signor Thrull ha interposto appello, censurandola perché avrebbe omesso di condannare alle spese la parte soccombente con riguardo alla mancata costituzione in giudizio dell’Amministrazione resistente, cioè sulla base di una circostanza che l’appello ritiene inidoneo a superare il principio generale della soccombenza.

L’Amministrazione non si è costituita in giudizio.

Alla camera di consiglio del 5 novembre 2013, l’appello è stato chiamato e trattenuto in decisione.

In linea di massima, anche nel regime di regolazione previsto dall’art. 26 c.p.a., sussistono margini di apprezzamento discrezionale riservati al giudice del merito circa il riparto delle spese di lite (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 9 febbraio 2011, n. 872).

Non è mutato, in altri termini, il principio tradizionale secondo cui la statuizione sulle spese di giudizio è espressione di una lata discrezionalità del giudice, sindacabile in sede di appello solo per violazione del principio secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa o in caso di compensazione palesemente irragionevole o errata alla stregua della motivazione adottata (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 8 ottobre 2012, n. 5232).

Tuttavia, nel caso di specie, il Collegio non può condividere l’affermazione del T.A.R., secondo cui dalla mancata costituzione in giudizio dell’Amministrazione soccombente discenderebbe che nulla dovrebbe disporsi circa le spese di giudizio.

La statuizione impugnata appare apodittica e merita riforma. La mancata costituzione dell’Amministrazione inadempiente, infatti, non incide di per sé sull’azione avviata e sull’attività defensionale svolta dalla parte privata e non escluda che questa, vittoriosa nel merito, abbia diritto al rimborso delle spese sostenute, che il Collegio ritiene di liquidare in euro 1.500,00 (millecinquecento/00), oltre agli accessori di legge.

Le spese seguono la soccombenza, conformemente alla legge, e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, riforma la sentenza impugnata nei sensi di cui in motivazione.

Condanna l’Amministrazione soccombente alle spese, che liquida nell’importo di euro 1.500,00 (millecinquecento/00), oltre agli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 novembre 2013 con l'intervento dei magistrati:

Giorgio Giaccardi, Presidente

Sergio De Felice, Consigliere

Fabio Taormina, Consigliere

Francesca Quadri, Consigliere

Giuseppe Castiglia, Consigliere, Estensore

 

   

 

   

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

   

 

   

 

   

 

   

 

   

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 28/11/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Consulenza Tecnica d'ufficio e principio del contraddittorio ex art. 67 c.p.a.

Consiglio di Stato, sez. V , sentenza n. 5610 del 26 novembre 2013
Data: 
26/11/2013
Tipo di Provvedimento: 
sentenza
Materia: 
Istruttoria

"Il giudice amministrativo  non puòderogare allo schema tipico delineato dal richiamato terzo comma dell’art. 63 c.p.a., volto ad assicurare che la relazione peritale si fondi sul ponderato esame delle “osservazioni e delle conclusioni dei consulenti tecnici di parte”"

 

N. 05610/2013REG.PROV.COLL.

N. 08719/2012 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8719 del 2012, proposto da: 
Societa' APPELLANTE, rappresentata e difesa dall'avv. *********, con domicilio eletto presso ********* in Roma, via *******, 2;

contro

Societa' APPELLATA in proprio e quale capogruppo costituenda Ati, ************ Srl quale mandante costituenda Ati; ************ Scrl in proprio e quale capogruppo costituenda Ati, Societa' *********** Srl in proprio e quale mandante costituenda Ati, rappresentati e difesi dall'avv. *******, con domicilio eletto presso ******* in Roma, piazza ********, 20;

nei confronti di

Comune Di Sarno, in Persona del Sindaco p.t.;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. CAMPANIA - SEZ. STACCATA DI SALERNO: SEZIONE I n. 01484/2012, resa tra le parti, concernente appalto lavori di realizzazione delle opere di urbanizzazione del piano di insediamenti produttivi

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di CONTROINTERESSATA in proprio e quale capogruppo costituenda Ati e di Societa' ********* Srl in proprio e quale mandante costituenda Ati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 luglio 2013 il Cons. Antonio Bianchi e uditi per le parti gli avvocati ***** e *****, per delega dell'Avvocato *****;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

Con delibera del Consiglio di Amministrazione del 9.06.2006, la Società APPELLANTE S.p.a. bandiva una gara d’appalto per l’affidamento dei lavori di esecuzione delle opere di urbanizzazione del P.I.P. del Comune di Sarno.

Alla gara partecipava, posizionandosi al secondo posto in graduatoria, il Consorzio APPELLATO (come semplicemente sarà denominato nel prosieguo), la cui offerta, una volta calcolata la soglia di anomalia, veniva sottoposta a verifica.

All’esito del relativo procedimento, l’offerta di APPELLATO veniva però ritenuta non congrua e l’appalto era, quindi, aggiudicato provvisoriamente all’ATI ****** S.p.a. e ***** S.p.a.

Pertanto, APPELLATO adiva il TAR Campania, Sezione staccata di Salerno, chiedendo l’annullamento della decisione in ordine alla ritenuta incongruità della propria offerta, unitamente al provvedimento di aggiudicazione provvisoria, e successivamente ( con atto di motivi aggiunti) chiedeva altresì l'annullamento dell’aggiudicazione definitiva in favore dell’ATI **** ***S.p.a. – **** S.r.l. (posto che neppure l’aggiudicataria provvisoria aveva superato la verifica di anomalia).

Si costituiva APPELLANTE S.p.a., eccependo l’inammissibilità del gravame di cui, comunque, chiedeva il rigetto nel merito.

Con ordinanza n. 96/2010, il Tar adito disponeva specifica C.T.U. al fine di accertare la sussistenza dell’anomalia dell’offerta presentata da APPELLATO, assegnando alle parti termine per la nomina dei propri consulenti .

Avendo il CTU depositato il proprio elaborato senza dare ai consulenti di parte comunicazione alcuna in ordine allo svolgimento delle relative operazioni , all’udienza del 13.01.2011 APPELLANTE chiedeva il rinnovamento dell’accertamento istruttorio e produceva memoria di controdeduzioni alla relazione peritale.

Il Tar, ritenuto il rilievo meritevole di apprezzamento, con ordinanza n. 212/2011 disponeva il rinnovamento della consulenza tecnica d’ufficio “in modo da garantire lo svolgimento di adeguato contraddittorio con i consulenti di parte”.

Il CTU depositava in data 17.05.2011 il nuovo elaborato, ribadendo le conclusioni a cui era precedentemente pervenuto.

All’udienza del giorno 1.12.2012, APPELLANTE deduceva la violazione del principio del contraddittorio che aveva nuovamente contraddistinto il modus operandi del Consulente, chiedendo la sostituzione dello stesso.

Con ordinanza n. 424/2012, il Tar decideva di assegnare un termine di 20 giorni alle parti per il deposito di eventuali memorie, acquisite le quali, tratteneva la causa in decisione senza fissare una nuova udienza.

Veniva quindi pubblicata la sentenza 25 luglio 2012, n. 1484, con la quale il primo giudice accoglieva, sulla base di quanto indicato dal C.T.U., il ricorso introduttivo ed i motivi aggiunti, con conseguente annullamento degli atti con essi impugnati .

Avverso la predetta sentenza APPELLANTE ha quindi interposto l’odierno appello,chiedendone la riforma.

Si è costituito in giudizio APPELLATO, chiedendo la reiezione del gravame.

Alla pubblica udienza del 2 luglio 2013, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1.L’appello è fondato sotto l’assorbente profilo della violazione dell’art. 67, comma 3, c.p.a. per mancato contraddittorio tecnico , dedotto con il secondo mezzo di gravame.

2. Ed invero, con il richiamato art. 67 il legislatore ha espressamente disposto che anche nel processo amministrativo, allorquando si faccia questione di valutare specifici aspetti tecnici che sfuggono alla diretta cognizione del giudice amministrativo, la relativa consulenza sia svolta in contraddittorio tra le parti,al fine di assicurare il rispetto del pieno diritto di difesa .

In particolare, il terzo comma prevede che il C.T.U. trasmetta “uno schema della propria relazione alle parti ovvero, se nominati, ai loro consulenti tecnici” (lett. c), di modo che questi ultimi possano inviare allo stesso “eventuali osservazioni e conclusioni “(lett. d).

Inoltre, secondo la successiva lettera e), nella relazione finale il consulente d’ufficio “dà altresì conto delle osservazioni e delle conclusioni dei consulenti di parte e prende specificamente posizione su di esse”.

Nel caso di specie,come precisato nella narrativa in fatto, a fronte di una prima ordinanza istruttoria (cui era seguito il deposito di un elaborato peritale svolto senza alcun contraddittorio con i C.T.P. nominati) il Tar ha disposto la rinnovazione della consulenza, con successiva ordinanza n. 212/2011, precisando che tale rinnovazione era concessa allo scopo di “garantire lo svolgimento di adeguato contraddittorio con i consulenti di parte” .

Sennonchè, nonostante detto puntuale rilievo, il consulente ha depositato nuovamente la propria relazione finale senza prima inviarne una bozza ai consulenti di parte e,quindi,senza instaurare alcun contraddittorio.

Ciò non di meno all’udienza del 9 giugno 2011 il Tar, in luogo di disporre la rinnovazione della C.T.U. con eventuale sostituzione del tecnico nominato, con ordinanza ex art. 73 c.p.a. ha concesso ai C.T.P. di depositare proprie memorie tecniche, per poi trattenere la causa in decisione senza fissare nuova udienza di discussione.

Ne è derivata una palese mancanza di contraddittorio con conseguente violazione del diritto di difesa , non potendo il giudice amministrativo derogare allo schema tipico delineato dal richiamato terzo comma dell’art. 63 c.p.a., volto ad assicurare che la relazione peritale si fondi sul ponderato esame delle “osservazioni e delle conclusioni dei consulenti tecnici di parte”, esame che, nella specie, è del tutto mancato.

In buona sostanza,la C.T.U. si è svolta in palese violazione dei disposti di legge e disattendendo altresì le specifiche indicazioni ricevute in merito al necessario contraddittorio da svolgere con i consulenti di parte, per cui erroneamente il primo giudice ha assunto a base della propria decisione una siffatta relazione peritale.

3.Per quanto sopra l’appello è fondato e come tale va accolto,con conseguente annullamento della sentenza impugnata e rimessione della causa al giudice di primo grado,ai sensi dell’art.105 del codice del processo amministrativo.

4. Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di lite.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e,per l’effetto, annulla la sentenza impugnata e rimette la causa al giudice di primo grado.

Spese di giudizio compensate tra le parti..

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 luglio 2013 con l'intervento dei magistrati:

Francesco Caringella, Presidente FF

Manfredo Atzeni, Consigliere

Doris Durante, Consigliere

Antonio Bianchi, Consigliere, Estensore

Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere

 

   

 

   

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

   

 

   

 

   

 

   

 

   

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 26/11/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Per le spese della CTU non si applica la regola della soccombenza: sulle parti grava un'obbligazione solidale

Tar Catania, sez. I, sentenza n. 2762 del 13 novembre 2013
Data: 
13/11/2013
Tipo di Provvedimento: 
sentenza
Materia: 
Spese del giudizio

1. "Il Comune è tenuto ad operare la scelta tra sanzione demolitoria e sanzione pecuniaria, valutando preventivamente se la demolizione possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità; pertanto, è illegittimo il provvedimento con cui l’Amministrazione dispone direttamente la demolizione, anticipando così la scelta tra dette misure e la sanzione pecuniaria, senza valutare se la demolizione delle opere abusive potesse compromettere la restante struttura (cfr. Cons. St., sez. VI, 28 febbraio 2000 n. 1055)".

2. "In tema di compenso al consulente d’ufficio, l’obbligo di pagare la prestazione eseguita ha natura solidale e, di conseguenza, l’ausiliario del giudice può agire autonomamente in giudizio nei confronti di ognuna delle parti, non solo quando sia mancato un provvedimento giudiziale di liquidazione ma anche quando il decreto emesso a carico di una parte sia rimasto inadempiuto, in quanto non trova applicazione, per essere l’attività svolta dal consulente finalizzata all’interesse comune di tutte le parti, il principio della soccombenza, operante solo nei rapporti con le parti e non nei confronti dell’ausiliario (così Cass. civ., sez. II, 15 settembre 2008 n. 23586)".

 

 

N. 02762/2013 REG.PROV.COLL.

N. 03332/2012 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia

sezione staccata di Catania (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 3332 del 2012, proposto da: 
RICORRENTI, rappresentati e difesi dall'avv. **********, con domicilio eletto presso la Segreteria del Tribunale, in Catania, via Milano 42a; 

contro

Comune di Milazzo; 

per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia,

dell'ordinanza del responsabile del 2° ufficio di staff del Comune di Milazzo n. 66 del 16/10/2012, con cui è stato negato il permesso di costruire in sanatoria chiesto dai ricorrenti, ed è stata ingiunta la demolizione delle opere edilizie eseguite.

 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 ottobre 2013 il dott. Dauno Trebastoni e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

I ricorrenti sono proprietari di un fabbricato per civile abitazione sito in Milazzo, sul quale essi erano stati autorizzati, con provvedimento n. 63 del 24 aprile 2009, all’esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria.

Alla luce di accertamenti eseguiti nel corso di un sopralluogo effettuato il 2 agosto 2011, con ordinanza n. 55 del 5 agosto 2011 il Comune ha intimato ai ricorrenti l’immediata sospensione dei lavori, contestando loro l’esecuzione di opere, ivi dettagliatamente descritte, in difformità dall’autorizzazione edilizia citata, e in assenza di concessione edilizia.

Con istanza del 13 ottobre 2011, i ricorrenti hanno chiesto al Comune, ai sensi dell’art. 13 L. n. 47/85 (adesso art. 36 D.P.R. n. 380/2001), il rilascio di permesso di costruire in sanatoria, per le opere eseguite in difformità dall’autorizzazione edilizia.

Dopo aver comunicato, ex art. 11 bis L.R. 30 aprile 1991 n. 10, il preavviso di rigetto, con il provvedimento impugnato il Comune ha confermato il rigetto dell’istanza di sanatoria, ordinando ai ricorrenti “di ricondurre, entro novanta giorni dalla notifica…, l’immobile alla situazione originaria, procedendo alla eliminazione delle opere edilizie abusive per le quali è stato disposto non farsi luogo al rilascio della concessione edilizia in sanatoria”.

Con il ricorso in esame, ritualmente proposto, i ricorrenti hanno quindi impugnato tale diniego.

Con ordinanza n. 671 del 04.03.2013 questa Sezione ha disposto una verificazione, “volta ad accertare la fondatezza dei motivi in base ai quali il Comune ha rigettato l’istanza per il rilascio di permesso di costruire in sanatoria, nonché delle censure a tale provvedimento rivolte dai ricorrenti”.

Il verificatore ha depositato la propria relazione in data 24.06.2013.

Alla pubblica udienza del 24.10.2013 la causa è stata posta in decisione.

DIRITTO

Il ricorso è fondato, nei limiti di seguito precisati.

Il Collegio ritiene fondato il 1° motivo di ricorso, nella parte in cui si lamenta il difetto di istruttoria legato all’avere omesso qualsiasi delibazione “in ordine all’eventuale pregiudizio che la paventata demolizione cagionerebbe alla rimanente parte del fabbricato, legittimamente edificata”, così facendo valere la violazione dell’art. 12 della L. n. 47/85, il quale disciplina le “opere eseguite in parziale difformità dalla concessione”.

Tuttavia, nel caso in esame trattasi di opere realizzate in difformità da una autorizzazione edilizia rilasciata per la realizzazione di opere di manutenzione straordinaria.

Ne consegue che la disposizione da applicare è quella di cui all’art. 9 della medesima L. 47/85, peraltro di contenuto identico al citato art. 12, il quale, nel disciplinare le opere di ristrutturazione edilizia “eseguite in assenza di concessione o in totale difformità da essa”, dispone che “qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il sindaco irroga una sanzione pecunaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti dalla legge 27 luglio 1978, n. 392…. Per gli edifici adibiti ad uso diverso da quello di abitazione la sanzione è pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile, determinato a cura dell'ufficio tecnico erariale”.

In sostanza, ai sensi delle citate disposizioni, il Comune è tenuto ad operare la scelta tra sanzione demolitoria e sanzione pecuniaria, valutando preventivamente se la demolizione possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità; pertanto, è illegittimo il provvedimento con cui l’Amministrazione dispone direttamente la demolizione, anticipando così la scelta tra dette misure e la sanzione pecuniaria, senza valutare se la demolizione delle opere abusive potesse compromettere la restante struttura (cfr. Cons. St., sez. VI, 28 febbraio 2000 n. 1055).

Oltretutto, in giurisprudenza si trova anche precisato che l’applicazione dell'art. 12 non può considerarsi limitata ai soli casi in cui sia stata riscontrata una parziale difformità rispetto ad un previo e già rilasciato titolo abilitativo a costruire, in quanto la norma deve trovare applicazione anche quando la costruzione è avvenuta in assenza di concessione edilizia, essendo costituito il presupposto per l'applicazione della disciplina sanzionatoria pecuniaria, in luogo di quella reale, dalla salvaguardia della staticità della parte non abusiva del manufatto, e non anche dalla circostanza che l'abuso sia caratterizzato da una parziale difformità rispetto ad un previo rilascio concessorio (cfr. Cons. St., sez. IV, 29 settembre 2011 n. 5412).

In effetti, nella sua relazione il CTU è stato molto chiaro nel precisare, con argomentazioni che il Collegio condivide, che eseguire il provvedimento impugnato, nella parte in cui ordina la demolizione delle opere abusive, “equivale a dover demolire tutta la struttura intelaiata interna, demolire le falde della copertura, i solai, ecc.”, per cui “ne risulterebbe un rudere pericolosamente inutilizzabile e irriscostruibile”.

Ne consegue l’illegittimità del provvedimento impugnato, ed il suo conseguente annullamento, fermo restando il potere del Comune di procedere all’applicazione della prevista sanzione pecuniaria.

In considerazione dell’accertato abuso edilizio, sussistono le eccezionali ragioni che consentono la compensazione delle spese di giudizio, mentre, per quanto riguarda la CTU, il Collegio pone il relativo costo – che sarà concretamente determinato con separato decreto del magistrato relatore, a ciò fin d’ora delegato – a carico di entrambe le parti, in egual misura; fermo restando che, in tema di compenso al consulente d’ufficio, l’obbligo di pagare la prestazione eseguita ha natura solidale e, di conseguenza, l’ausiliario del giudice può agire autonomamente in giudizio nei confronti di ognuna delle parti, non solo quando sia mancato un provvedimento giudiziale di liquidazione ma anche quando il decreto emesso a carico di una parte sia rimasto inadempiuto, in quanto non trova applicazione, per essere l’attività svolta dal consulente finalizzata all’interesse comune di tutte le parti, il principio della soccombenza, operante solo nei rapporti con le parti e non nei confronti dell’ausiliario (così Cass. civ., sez. II, 15 settembre 2008 n. 23586).

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia – sezione staccata di Catania – Sezione Prima definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie, nei termini di cui in motivazione, e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato.

Compensa tra le parti le spese di giudizio, mentre pone a carico di entrambe le parti, in egual misura, le spese della CTU, da liquidare con separato decreto.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Catania nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2013 con l'intervento dei magistrati:

Biagio Campanella, Presidente

Maria Stella Boscarino, Consigliere

Dauno Trebastoni, Consigliere, Estensore

 

   

 

   

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

   

 

   

 

   

 

   

 

   

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 13/11/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Sulla notifica del titolo esecutivo ai fini della proposizione del ricorso in ottemperanza

Tar Catania, se. II, sentenza n. 2745 del 11 novembre 2013
Data: 
11/11/2013
Tipo di Provvedimento: 
sentenza breve

"Ai fini della proposizione del ricorso in ottemperanza la notificazione del titolo esecutivo deve essere fatta, ai sensi dell'art. 479, comma 2, c.p.c., alla parte personalmente a norma degli articoli 137 e seguenti. La notifica del decreto presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato (e non presso la sede dell’amministrazione), effettuata dal ricorrente, risulta quindi inidonea ai fini contemplati dal citato art. 14 decreto legge n. 669/1996".

 

N. 02745/2013 REG.PROV.COLL.

N. 00262/2013 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia

sezione staccata di Catania (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex art. 114, comma terzo, cod. proc. amm.;
sul ricorso numero di registro generale 262 del 2013, proposto da: 
RICORRENTE, rappresentata e difesa dall'avv. ******, domiciliatario in Catania, c.so delle Province 15; 

contro

Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Catania, domiciliataria in Catania, via Vecchia Ognina, 149; 

per l’esecuzione

del decreto della Corte d’appello di Messina emesso nel procedimento iscritto al n.841/2010.

 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’amministrazione intimata;

Visti tutti gli atti della causa;

Dato avviso, ex art. 73, comma terzo, cod. proc. amm., di una causa di probabile inammissibilità del gravame per inesatta notifica del titolo esecutivo;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 23 ottobre 2013 la dott.ssa Rosalia Messina e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

 

Parte ricorrente chiede l’esecuzione del decreto ex legge n. 89/2001 della Corte d’appello di Messina, di estremi specificati in epigrafe.

Il Collegio rileva però l’inammissibilità del gravame.

Il comma primo dell’art.14 del d.l. n. 669/1996 prescrive che le pubbliche amministrazioni devono eseguire le sentenze e ogni altro atto giurisdizionale aventi efficacia esecutiva e comportanti l’obbligo di pagamento di somme di danaro entro il termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Il secondo comma della citata disposizione prevede che il creditore di un’obbligazione pecuniaria cui è tenuta una pubblica amministrazione non può procedere a esecuzione forzata, né notificare l’atto di precetto, prima del decorso di detto termine dilatorio.

Stabilisce l’art. 479, secondo comma, cod. proc. civ. che la notificazione del titolo esecutivo deve essere fatta alla parte personalmente a norma degli articoli 137 e seguenti.

La notifica del decreto presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato (e non presso la sede dell’amministrazione), effettuata dal ricorrente, risulta quindi inidonea ai fini contemplati dal citato art. 14 decreto legge n. 669/1996.

In proposito, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha avuto condivisibilmente modo di affermare che l’obbligo della preventiva notifica del titolo esecutivo, nonché il correlativo termine dilatorio di centoventi giorni, stabiliti dal citato art. 14, sussistono in relazione a ogni credito pecuniario verso pubbliche amministrazioni, e che il ricorso in ottemperanza proposto senza la previa notifica del titolo in forma esecutiva è inammissibile (CGARS, 27 luglio 2012, n. 725).

Attesa la recente puntualizzazione giurisprudenziale delle superiori tematiche, le spese possono in via eccezionale essere compensate.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia - sezione staccata di Catania (Sezione Seconda) - definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo dichiara inammissibile nei sensi di cui in motivazione.

Compensa le spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Catania nella camera di consiglio del giorno 23 ottobre 2013 con l'intervento dei magistrati:

Salvatore Veneziano, Presidente

Rosalia Messina, Consigliere, Estensore

Daniele Burzichelli, Consigliere

 

   

 

   

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

   

 

   

 

   

 

   

 

   

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 11/11/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Accesso agli atti amministrativi ex art. 22 e ss. L. n. 241/1990

Tar Catania, sez. III, sentenza n. 2483 del 15 ottobre 2013
Data: 
15/10/2013
Tipo di Provvedimento: 
sentenza

"Ai sensi dell'art. 22 L. 7 agosto 1990 n. 241, l'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce ” principio generale dell'attività amministrativa” per cui, con l'introduzione dell'azione a tutela dell'accesso, il Legislatore ha inteso assicurare all'amministrato la trasparenza della Pubblica amministrazione, indipendentemente dalla lesione, in concreto, di una determinata posizione di diritto o di interesse legittimo. Con la conseguenza che l'interesse alla conoscenza dei documenti amministrativi viene elevato a bene della vita autonomo, meritevole di tutela separatamente dalle posizioni sulle quali abbia poi ad incidere l'attività amministrativa, eventualmente in modo lesivo (ex multis, cfr. Cons. di Stato, sent. n. 136 del 16 gennaio 2012, Sez. V).

Inoltre, il collegamento tra l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza, di cui all'art. 22 comma 1 lett. b) L. 7 agosto 1990 n. 241, come sostituito dall'art. 15 L. 11 febbraio 2005 n. 15, va inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse (cfr. Cons. di Stato, sent. 116 del 13 gennaio 2012, Sez. III)"

 

N. 02483/2013 REG.PROV.COLL.

N. 00855/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia

sezione staccata di Catania (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 855 del 2013, proposto da Simeto Ambiente Spa, in Liquidazione, in persona del Commissario liquidatore, legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'avv. ********, con domicilio eletto presso ********* in Catania, via *********** 23;

contro

Comune di Pozzallo, in persona del legale rappresentante p.t., non costituitosi in giudizio; 

nei confronti di

Geo Ambiente Srl, non costituitasi in giudizio; 

per l'annullamento

del silenzio-diniego formatosi sull'istanza presentata dalla ricorrente il 18.02.2013 per l'accesso ai documenti relativi alla posizione debitoria del Comune di Pozzallo nei confronti della società Geo Ambiente S.r.l., aggiudicataria del servizio di raccolta di rifiuti.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 25 settembre 2013 il dott. Calogero Ferlisi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

 

FATTO

1. L'odierna ricorrente espone che:

- essa è creditrice, in forza di titolo esecutivo (allegato in atti) della Geo Ambiente S.r.l., concessionaria per conto dell'ATO Ragusa Ambiente Spa, in liquidazione, del servizio di raccolta di rifiuti presso il Comune di Pozzallo;

- ".. ha promosso due distinte procedure di espropriazione mobiliare presso terzi, sia nei confronti della medesima ATO Ragusa Ambiente …, sia nei confronti del Comune di Pozzallo"; ciò in quanto non conosce "…. se, alla luce dei rapporti interni tra Società d’Ambito e Comune (quali tra l’altro risultanti dal contratto di servizio sottostante, non in possesso della deducente), il pagamento del costo del servizio sia posto a carico della prima o del secondo, ovvero in parte all’una ed in parte all’altro";

- in sede in di giudizi di esecuzione forzata il Comune e la Società d’Ambito avrebbero reso dichiarazioni ex art. 547 c.p.c. "risultate tra loro contraddittorie" in quanto:

a) l’ATO Ragusa Ambiente s.p.a. ha dichiarato che “questa società d’ambito in liquidazione nulla deve alla società Geo Ambiente s.r.l. con sede in Belpasso in quanto i crediti maturati in favore della stessa per la gestione dei servizi di igiene ambientale nel Comune di Pozzallo sono relativi ad un rapporto contrattuale intercorrente esclusivamente tra il predetto Ente Locale e la summenzionata società, giusta contratto di appalto del 09.02.2009, e i pagamenti dei corrispettivi dovuti per detto servizio reso sono in carico al Comune committente”;

b) il Comune di Pozzallo - giusta nota n. 29767 del 29.11.2012, a firma del Capo Servizio dell’Ufficio Ragioneria, nell’esporre la propria posizione debitoria verso la ditta Geo Ambiente s.r.l., ha dichiarato che “in atto il Comune … è debitore nei confronti della Geo Ambiente s.r.l. con sede legale in Belpasso (CT) in C. Fontana Murana (rectius Murata) 11 della complessiva somma di € 75.399,59, quale importo dovuto dal Comune alla stessa a titolo di trasporto per conferimento rifiuti preso la discarica di Motta S. Anastasia. Si precisa che il costo del servizio di raccolta rifiuti, reso dalla Geo Ambiente in favore del Comune di Pozzallo, viene contabilizzato cartolarmente in favore dell’ATO Ragusa Ambiente s.p.a. di Ragusa, in quanto, ai sensi del contratto di servizio per la gestione del ciclo rifiuti del 5/7/2005 tra il Comune di Pozzallo e l’ATO Ambiente Ragusa, la gestione integrata del servizio di igiene urbana relativo al ciclo integrato dei rifiuti urbani nel territorio comunale è stato trasferito all’ATO Ragusa ambiente spa di Ragusa alla cui società per l’appunto, la Geo Ambiente intesta le fatture di tale servizio”;

- in relazione alla predetta contraddittorietà, l’odierna deducente ha sollevato contestazioni ex art. 548, comma 1, c.p.c. relativamente alla dichiarazione resa dall’ATO Ragusa Ambiente, con conseguente avvio del relativo giudizio di accertamento;

- stante l'esigenza "di tutelare le proprie ragioni creditorie, anche in seno al giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo pendente inter partes", è stata presentata al Comune l'istanza di accesso di cui in epigrafe tesa all' esibizione ed estrazione di copia dei seguenti atti e documenti:

"1) documenti contabili relativi al fornitore Geo Ambiente s.r.l. ed in particolare di quelli da cui si evince l'attuale esposizione debitoria del Comune verso l'aggiudicataria";

"2) fatture passive ricevute dal Comune di Pozzallo e spiccate da Geo Ambiente s.r.l.;

"3) bonifici, assegni o documentazione asseverante eventuale diversa modalità di pagamento, dalla quale risulti il saldo di tutti gli importi fatturati da Geo Ambiente s.r.l. al Comune di Pozzallo ;

"4) bilancio e\o documenti utili ai fini della formazione del bilancio, limitatamente alla parte da cui risulti l’esposizione debitoria verso Geo Ambiente s.r.l.;

"5) contratto di servizio per la gestione integrata del servizio di igiene urbana tra il Comune di Pozzallo e l’ATO Ragusa Ambiente s.p.a. del 5.7.2005;

"6) atto costitutivo di ATO Ragusa Ambiente s.p.a. di cui il Comune è socio;

"7) documentazione asseverante i riversamenti operati dal Comune di Pozzallo alla Società d’Ambito resistente per il pagamento del costo di gestione dei rifiuti;

8) mandati di pagamento effettuati a favore di Geo Ambiente s.r.l. dal Comune di Pozzallo, con sottostanti documenti autorizzativi, successivamente alla notifica del p.p.t.

9) contratto d'appalto tra il Comune di Pozzallo e Geo Ambiente s.r.l. del 9.2.2009;

10) mandati di pagamento a Geo Ambiente s.r.l. a seguito di delibere di GM … nn. 31/2012, 54/2012 e 90/2012 (che … hanno disposto provviste a favore dell'aggiudicataria in frode delel ragioni creditorie di altra ditta) e sottostanti atti autorizzativi;

"11) documenti concernenti il giudizio RR 3031/2011 pendente dinanzi al T.A.R. di Catania (ricorso …, memoria di costituzione, determina dirigenziale prot. n. 32334 del 24.11.2011 ed ulteriori atti sottostanti) avviato da Geo Ambiente s.r.l. per conseguire dal Comune di Pozzallo le somme per revisione del canone d'appalto".

2. Né il Comune, né la controinteressata, si sono costituiti in giudizio.

3. La ricorrente ha depositato memoria in data 21.9.2013 che (in relazione alla intervenuta scadenza dei termini dilatori prescritti dal cod. proc. amm.) è stata dalla Segreteria inserita in busta chiusa per le valutazioni del Collegio.

4. Alla Camera di consiglio del 25 settembre 2013 la causa è stata posta in decisione.

DIRITTO

1. Preliminarmente, va osservato che, ai sensi del combinato disposto dell'art. 73, comma 1, e dell'art. 87, comma 3, cod. proc. amm., il termine per depositare memorie difensive nei procedimenti da tenersi in camera di consiglio è di 15 giorni prima dell'udienza camerale. Di conseguenza la memoria depositata dalla ricorrente in data 21.9.2013, in vista dell'odierna camera di consiglio (memoria in atto inserita in busta chiusa), è da ritenersi tardiva e come tale priva di rilevanza ai fini del decidere. Di essa quindi il Collegio non terrà alcun conto.

2. Nel merito, il ricorso è fondato.

Poiché è documentato in atti che la ricorrente Simeto Ambiente (società di Gestione dell'ATO Catania 3), è creditrice, in forza di titolo esecutivo, di Geo Ambiente (società che gestisce lo smaltimento dei rifiuti del Comune), sussiste una palese situazione di interesse della ricorrente a conoscere esattamente la posizioni debitoria del Comune (che con la Geo Ambiente avrebbe addirittura stipulato un contratto di servizio nel 2009) e così valutare le possibili garanzie del proprio credito.

Inoltre, deve considerarsi che, in effetti, le dichiarazioni rese dal Comune in sede di procedimento di esecuzione forzata, e appaiono essere in oggettivo contrasto con quelle rese dall'ATO Ragusa, avendo

- il Comune dichiarato che "… il costo del servizio di raccolta rifiuti, reso dalla Geo Ambiente in favore del Comune di Pozzallo, viene contabilizzato cartolarmente in favore dell’ATO Ragusa Ambiente s.p.a. di Ragusa" e che la "Geo Ambiente intesta le fatture di tale servizio” all’ATO Ragusa ambiente spa di Ragusa.

- l’ATO Ragusa Ambiente dichiarato che il “rapporto contrattuale intercorre(nte) esclusivamente tra il predetto Ente Locale e la summenzionata società, giusta contratto di appalto del 09.02.2009, e i pagamenti dei corrispettivi dovuti per detto servizio reso sono in carico al Comune committente”;

Di conseguenza, la Simeto Ambiente (che ha presentato un'istanza non generica, bensì specifica ed analitica) ha un qualificato ed articolato interesse ad accedere agli atti di che trattasi: sia in relazione diretta con la possibile soddisfazione del credito in atto vantato verso la Geo Ambiente s.r.l.; sia anche in relazione alla verifica della correttezza delle dichiarazioni di terzo rese, tanto dal Comune di Pozzallo, quanto dall'ATO Ragusa Ambiente, in sede di procedimenti di esecuzione forzata attivati verso la Geo Ambiente (tanto che, nella odierna Camera di consiglio, risulta deciso favorevolmente anche il ricorso 858/2013 che la stessa Simeto Ambiente ha dovuto proporre nei confronti dell'ATO avverso il diniego esplicito di accesso agli atti relativi ai rapporti di quest'ultimo con la Geo Ambiente).

Sul piano dei principi, poi, giova solo ricordare che ai sensi dell'art. 22 L. 7 agosto 1990 n. 241, l'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce ” principio generale dell'attività amministrativa” per cui, con l'introduzione dell'azione a tutela dell'accesso, il Legislatore ha inteso assicurare all'amministrato la trasparenza della Pubblica amministrazione, indipendentemente dalla lesione, in concreto, di una determinata posizione di diritto o di interesse legittimo. Con la conseguenza che l'interesse alla conoscenza dei documenti amministrativi viene elevato a bene della vita autonomo, meritevole di tutela separatamente dalle posizioni sulle quali abbia poi ad incidere l'attività amministrativa, eventualmente in modo lesivo (ex multis, cfr. Cons. di Stato, sent. n. 136 del 16 gennaio 2012, Sez. V).

Inoltre, il collegamento tra l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza, di cui all'art. 22 comma 1 lett. b) L. 7 agosto 1990 n. 241, come sostituito dall'art. 15 L. 11 febbraio 2005 n. 15, va inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse (cfr. Cons. di Stato, sent. 116 del 13 gennaio 2012, Sez. III).

3. In conclusione, alla stregua dei fatti sopra precisati e dei richiamati principi, il comportamento silente del Comune è illegittimo ed ricorso dev'essere accolto con la conseguente statuizione della declaratoria del diritto della ricorrente ad accedere agli atti di cui in narrativa.

Le spese seguono la soccombenza come da dispositivo, con invio di copia della presente decisione, per le valutazioni di competenza, alla Procura regionale della Corte dei Conti presso la Regione siciliana.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l'effetto dichiara il diritto della ricorrente ad accedere agli atti di cui in motivazione, nel termine di giorni trenta a decorrere dalla comunicazione o dalla notifica della presente sentenza.

Condanna il Comune di Pozzallo al pagamento delle spese di lite che liquida in complessive Euro. 1.500,00 (mille\00), oltre accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa e dispone che la Segreteria ne trasmetta copia alla Procura regionale della Corte dei Conti presso la Regione siciliana per le valutazioni di competenza.

Così deciso in Catania nella camera di consiglio del giorno 25 settembre 2013 con l'intervento dei magistrati:

 

 

Calogero Ferlisi, Presidente, Estensore

Gabriella Guzzardi, Consigliere

Agnese Anna Barone, Consigliere

 

 

 

 

     
     
IL PRESIDENTE, ESTENSORE    
     
     
     
     
     

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 15/10/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Il limite tra diritto di cronaca e diritto di critica

Tribunale di Catania, sez. III civile, sentenza n. 816 del 13 agosto 2013
Data: 
23/08/2013
Tipo di Provvedimento: 
Sentenza
Materia: 
diritto di cronaca

 " Mentre il diritto di cronaca si sostanzia nella narrazione veritiera dei fatti, quello di critica si concretizza in un giudizio che deve essere necessariamente soggettivo.... Come ogni diritto, anche quello di critica, nondimeno deve essere esercitato entro limiti oggettivi fissati dalla logica concettuale e dall'ordinamento positivo, giacché, in questa materia non sarebbe corretta l'illazione che la critica è consentita anche quando può offendere la reputazione individuale. Quando l'esercizio del diritto di critica va a collidere con la tutela dei diritti della personalità degli interessati, invece, è necessaria un'opera di bilanciamento tra le peculiarità espressive della critica ed il grado di verità e di certezza del fatto o del comportamento dal quale trae lo spunto il giudizio critico” (Cass. n. 26999/2005).

 
N. R.G. 816/2007
 
 
 
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI CATANIA
TERZA SEZIONE CIVILE
 
Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Dora Bonifacio
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
 
nella causa civile iscritta al n. R.G. 816/2007 promossa da:
OMISSIS... (C.F. OMISSIS...), con il patrocinio dell’avv. CASSANO GIUSEPPE, elettivamente domiciliato nel suo studio in VIA G. D’ANNUNZIO N. 62 C/O AVV. SCUDERI CATANIA
ATTORE/I
contro
OMISS... (C.F. ), con il patrocinio dell’avv. REGANATI LORENZO e dell’avv. , elettivamente domiciliato in VIA GABRIELE D’ANNUNZIO, 172 CATANIA presso il difensore avv. REGANATI LORENZO
CONVENUTO/I
CONCLUSIONI
All’udienza del 15.6.2012 le parti hanno precisato le loro conclusioni come in verbale.
IN FATTO E DIRITTO
Con atto notificato in data 10.1.2007,... omissis.... conveniva in giudizio.. omissis..., esponendo:
- di essere titolare della ditta avente sede nel comune di omissis..., contrada omissis... che opera nel campo della gestione dei rifiuti e dei servizi legati all’ambiente e all’igiene urbana,
diventata leader nella gestione delle discariche dei rifiuti solidi urbani, tra le quali rientra la discarica sita in c.da omissis...;
- che il convenuto, all’epoca dei fatti sindaco del Comune di...omissis.., aveva subito un’azione intimidatoria nella notte tra il 6 ed il 7 agosto del 2001, quando ignoti avevano cosparso di benzina l’ingresso della sua abitazione;
- che a seguito di tali fatti il ...omissis..., intervistato sull’accaduto da un giornalista del quotidiano “omissis” aveva dichiarato di non avere dubbi sull’avvertimento ricevuto e che l’accaduto era da ricollegare sia all’azione portata avanti dall’amministrazione comunale contro il racket nella zona commerciale sia alla determinazione con la quale si chiedeva la chiusura della discarica sita in contrada Tiritì;
- che inoltre il ...omissis..., in altra intervista, aveva affermato che alla base dell’intimidazione ai propri danni vi sarebbe stata un “umiliazione pubblica non facile da digerire”, poiché lo stesso il 6 agosto del 2001, mentre nella cattedrale del comune si svolgeva la messa Pontificale, aveva chiesto che fossero allontanate dai banchi riservati alle autorità alcune persone che secondo lui non avevano alcun diritto di sedervi;
- che, infine, nel libro pubblicato dallo stesso ...omissis..., intitolato “Sindaco per passione”, questi aveva ricostruito le vicende della discarica, facendo riferimento a forti pressioni politiche per evitare la costruzione di una nuova discarica ed al sostegno elettorale dato dai titolari della discarica ai successivi amministratori del comune, e aveva ribadito quando dichiarato nell’immediatezza dei fatti circa le motivazioni dell’intimidazione ricevuta;
- che le dette affermazioni dimostravano una vera e propria aggressione da parte del ...omissis... contro l’onorabilità di parte attrice, ritenuta autrice di fatti infamanti, quale era un attentato intimidatorio, e accusata di legami politici utilizzati per realizzare i propri interessi personali.
L’attrice chiedeva, quindi, che il Tribunale, riconosciuta la responsabilità del convenuto lo condannasse al risarcimento di un milione di euro per danno non patrimoniale nel duplice aspetto del danno esistenziale e del danno morale.
Il ...omissis... costituendosi in giudizio, evidenziava, preliminarmente, che la ...omissis... si era già costituita parte civile nel giudizio penale e nel merito deduceva che quand’anche alle espressioni dallo stesso usate potesse darsi un contenuto negativo, le stesse dovevano ritenersi lecite perché comportanti profili di interesse pubblico tali da legittimare il diritto di cronaca e che in ogni caso le stesse non avevano alcun contenuto diffamatorio. Contestava poi la sussistenza dei pretesi danni. 
Con ordinanza del 3.7.2009 il Giudice riteneva di dover decidere con sentenza in ordine sia all’applicabilità dell’art. 75 c.p.p. che alla domanda attorea di risarcimento dei danni con riferimento a quanto pubblicato nel libro di parte convenuta e rinviava per la precisazione delle conclusioni.
Introitata la causa in decisione con ordinanza del 20.8.2000 il G.I. riteneva necessario accertare lo stato del procedimento penale e rimetteva la causa sul ruolo.
Indi, dopo numerosi rinvii per consentire alle parti di documentare lo stato del procedimento penale, la causa è stata posta in decisione all’udienza del 15.6.2012, con assegnazione dei termini di legge per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.
__________
Occorre, preliminarmente, rilevare che agli atti non vi è prova della pendenza di un giudizio penale avente ad oggetto i medesimi (o parte dei medesimi) fatti posti alla base del presente giudizio civile, né della costituzione di parte civile della ...omissis... nell’ambito di un siffatto procedimento penale.
Ne consegue l’inapplicabilità dell’art. 75, co. 3, c.p.p. il quale prevede la sospensione del giudizio civile nel caso in cui l’azione civile sia proposta nei confronti dell’imputato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale. Saranno salvi, invece, gi effetti della norma qualora l’azione civile venisse trasferita nel giudizio penale ai sensi dei commi 1 e 2 della medesima disposizione.
Nel merito, ritiene questo decidente che le risultanze processuali devono condurre al rigetto della domanda proposta dalla ...omissis..., volta all'accertamento della responsabilità del convenuto in relazione al contenuto diffamatorio e gravemente lesivo dell’onore e della reputazione della stessa attrice delle affermazioni del ...omissis...di cui all’articolo del quotidiano “la Sicilia” dalla stessa prodotto in atti (quello del mercoledì 8.8.2001, doc. n. 3), nonché al libro dallo stesso pubblicato recante il titolo “Sindaco per passione” (pag. da 137 a 147). Quanto all’articolo prodotto come doc. 4 è opportuno precisare che lo stesso non reca alcuna data né la testata del giornale ove sarebbe stato pubblicato.
Deve, all’uopo, premettersi che l’ordinamento giuridico affida al rimedio dell’art. 2043 c.c. la tutela civile dei diritti della personalità, tra cui rientrano certamente l’onore e la reputazione di cui il ricorrente lamenta la lesione. Occorre, pertanto, verificare se la condotta del convenuto abbia provocato un pregiudizio a tali diritti, costituzionalmente tutelati (art. 2 Cost.), tale da cagionare un “danno ingiusto”, risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c.
Ed invero, il rispetto della sfera morale della persona pone da sempre in primo piano – e ovviamente in misura sempre maggiore con la diffusione degli attuali mezzi di comunicazione la questione del suo bilanciamento con l’esigenza di garantire la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), cui si ricollegano, in particolare, nella prospettiva della realizzazione dell’interesse all’informazione (nella sua duplice veste di “diritto ad informare” e “diritto ad essere informati”), il diritto di cronaca ed il diritto di critica.
Il diritto di cronaca è espressione della libertà di stampa presidiata (ma anche delimitata) dall’art. 21 Cost. La legittimità del suo esercizio, quale limite alla tutela dell’onore e della reputazione, è stata ricollegata al rispetto di talune condizioni essenziali che ne rappresentano, a loro volta, i limiti invalicabili a salvaguardia della dignità della persona oggetto di interesse.
La giurisprudenza ha individuato nell’utilità sociale dell’informazione, nella verità (oggettiva o anche soltanto putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) e nella forma civile dell’esposizione dei fatti, le condizioni in presenza delle quali, a fronte di un fatto lesivo della reputazione, può essere invocato il legittimo esercizio del diritto di cronaca, che fa venir meno il carattere ingiusto del danno (tra le prime, v. Cass., 1984/5259).
Anche il diritto di critica è espressione della libertà di manifestazione del pensiero.
La critica mira non già ad informare ma a fornire giudizi e valutazioni personali, con un’indubbiamente più intensa compromissione della reputazione altrui.
Per cui, fermi restando i requisiti della pertinenza e della continenza, la critica si caratterizza per l’interpretazione dei fatti in chiave necessariamente soggettiva, cioè corrispondente al punto di vista di chi la manifesta che ne costituisce l’elemento fondante.
Cionondimeno, la critica deve sempre rispettare l’esigenza di un giusto bilanciamento con la tutela della persona che ne è oggetto.
Ed invero, come affermato dalla Suprema Corte, “mentre il diritto di cronaca si sostanzia nella narrazione veritiera dei fatti, quello di critica si concretizza in un giudizio che deve essere necessariamente soggettivo. In altri termini, la critica si fonda, per sua natura, su un'interpretazione soggettiva dei fatti, per la valutazione dei quali non valgono i soli canoni valutativi della verità, della continenza e dell'interesse sociale. Infatti, la critica mira non già ad informare, ma a fornire giudizi e valutazioni personali, ….Come ogni diritto, anche quello di critica, nondimeno deve essere esercitato entro limiti oggettivi fissati dalla logica concettuale e dall'ordinamento positivo, giacché, in questa materia non sarebbe corretta l'illazione che la critica è consentita anche quando può offendere la reputazione individuale. Quando l'esercizio del diritto di critica va a collidere con la tutela dei diritti della personalità degli interessati, invece, è necessaria un'opera di bilanciamento tra le peculiarità espressive della critica ed il grado di verità e di certezza del fatto o del comportamento dal quale trae lo spunto il giudizio critico” (Cass. n. 26999/2005).
<< Il bilanciamento sta nel fatto che per la critica, diversamente dalla cronaca, sussiste il limite dell'interesse pubblico o sociale ad essa stessa attribuibile, quando si rivolge a soggetti che tengono comportamenti o svolgono attività, che richiamano su di essi l'attenzione dell'opinione pubblica. Detto interesse sociale non attiene alla conoscenza del fatto oggetto di critica (come nel diritto di cronaca), essendo detta conoscenza del fatto presupposto della critica e, come tale, fuori da essa (per cui è sufficiente il solo richiamo del presupposto per poi impostare lo sviluppo argomentativo dell'osservazione critica), ma attiene a quel particolare giudizio critico e, quindi, anche alla fonte da cui esso proviene. Mentre è necessario che i fatti su cui si appunta la critica siano veri (continenza sostanziale, nella cronaca attinente all'oggetto e nella critica attinente al presupposto), non è necessario che la critica sia esatta, purché risponda agli altri requisiti suddetti >> e sebbene, << anche chi esercita il diritto di critica è tenuto al rispetto della realtà storica dei fatti oggetto del suo giudizio, …ciò non comporta che questi, prima di esprimere il proprio dissenso, debba fornire una narrazione puntuale ed esaustiva delle vicende.
La critica non mira ad informare, ma a fornire giudizi e valutazioni personali >> (Cass., 2000/9746).
Orbene, nel caso in esame, va, in primo luogo, rimarcato che oggetto del presente giudizio non è il diritto di cronaca giornalistica, non essendo stati citati in giudizio né il giornalista che ha redatto l’articolo né il direttore del quotidiano “La Sicilia, bensì quello di critica e di libertà di espressione del pensiero da parte del convenuto omissis..., per i giudizi espressi negli articoli oggetto del contendere e nel libro dallo stesso pubblicato.
Vanno, in secondo luogo, distinte le dichiarazioni rese dal omissis..., sia negli articoli sopra indicati sia nel libro dallo stesso pubblicato, riguardanti l’atto intimidatorio dallo stesso subito e quelle contenute nel libro e relative alle vicende della discarica sita in c.da ...omissis... e gestita dalla parte attrice.
Quanto alle prime va, preliminarmente, osservato come l’articolo dell’8.8.2001 prodotto da parte attrice non risulti leggibile per esteso mancando le ultime righe, riguardanti appunto le dichiarazioni del omissis... e nelle quali sarebbero contenute le affermazioni asseritamente lesive dell’onere e della reputazione della omissis...
Tuttavia, anche a voler ritenere che le affermazioni del convenuto siano del tenore di quelle riportate tra virgolette nell’atto di citazione – ossia “benché siano passati otto anni dalle ultime minacce ricevute esistono interessi ambigui che questa amministrazione ha voluto calpestare. 
Non facendoci intimidire da nessuno, i nostri punti fermi rimangono la lotta al racket e la ferma volontà di chiudere discarica di omissis... che rappresenta un serio pericolo per il nostro territorio” – e che lo stesso abbia effettivamente dichiarato quanto riportato dal giornalista del suddetto quotidiano, senza, tuttavia utilizzare le virgolette - ossia che il sindaco ...omissis... non ha dubbi, l’avvertimento ricevuto lunedì sera è da ricollegare a due fatti, l’azione portata avanti dall’amministrazione comunale per combattere il racket nella zona commerciale ed alla determinazione con la quale si chiede da tempo la chiusura della discarica in contrada << omissis > -, va rilevato, innanzitutto, che siffatte affermazioni non possono in alcun modo ritenersi direttamente e inequivocamente collegabili alla parte attrice, atteso che l’opposizione alla chiusura della discarica proveniva certamente da più parti e molte persone erano contrarie alla determinazione con la quale il Sindaco e la sua amministrazione chiedevano da tempo la chiusura della discarica.
Manca, pertanto, nel caso concreto la diretta riconducibilità delle espressioni riferite dal omissis... alla persona della ...omissis...
Tuttavia, anche volendo, verificare se la condotta del convenuto abbia provocato un pregiudizio all’onore e alla reputazione di parte attrice, diritti costituzionalmente tutelati (art. 2 Cost.), tale da cagionarle un “danno ingiusto”, risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c., occorre premettere che il rispetto della sfera morale della persona pone da sempre in primo piano – e ovviamente in misura sempre maggiore con la diffusione degli attuali mezzi di trasmissione delle comunicazioni – la questione del suo bilanciamento con l’esigenza di garantire la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.).
Ebbene, si ritiene che il diritto di critica siano stato legittimamente esercitati e, ciò, alla luce dei principi sopra riportati.
Ed invero, quanto al profilo della continenza formale, si ritiene che le suddette dichiarazioni non travalichino i limiti, come sopra indicati, della forma civile dell’esposizione e, ciò, sia con riferimento alla descrizione dei fatti che alla manifestazione delle opinioni.
Quanto al requisito della pertinenza, sussiste certamente un interesse pubblico a conoscere non solo la notizia - in particolare quella dell’atto intimidatorio subito dal ...omissis...- ma pure la valutazione dei fatti fornita dallo stesso, atteso che il convenuto era, all’epoca dei fatti sindaco del comune di...omissis....
In particolare, ritiene questo decidente, che nel caso in esame le espressioni utilizzate dal convenuto non possono ritenersi mirate alla lesione dell’altrui onore e men che meno a quello della parte attrice, fornendo solo una chiave di lettura dell’accaduto rispetto all’attività condotta dall’amministrazione, e non possono certo essere lette come accuse rivolte alla ...omissis... di essere la mandante del grave atto intimidatorio. Il ...omissis..., infatti, per come già rilevato, fa riferimento solo all’attività svolta con determinazione dall’amministrazione – per la lotta al racket e per la chiusura della discarica – per ricercare le motivazioni che possono essere alla base del gesto intimidatorio, senza tuttavia indicare specifici soggetti mandanti dello stesso, ed in particolare persone resisi responsabili di attività estorsive ovvero i gestori della discarica, ma genericamente coloro che avevano avversato – sul piano politico e privato – siffatte determinazioni dell’amministrazione comunale.
Medesime considerazioni possono essere svolte con riguardo alla medesima frase riportata nel libro pubblicato dal omissis.... Lo stesso, infatti, a pag. 144, ribadisce che “ai giornalisti che mi chiedevano da dove potesse provenire l’intimidazione, risposi << prove non ne ho, ma certamente la lotta che la mia amministrazione ha portato e porta avanti contro la piaga del racket e quella, altrettanto decisa, per la chiusura delle discarica di Tiritì, sono le direzioni in cui guardare>>”. Nessun riferimento alla titolare della discarica viene, anche larvatamente, compiuto, attesa la pluralità dei soggetti (come detto, politici e non) che si erano mostrati contrari all’attività svolta dall’amministrazione per la chiusura della discarica e per la realizzazione di una nuova discarica, come narrato nello stesso libro a partire dalla pag. 137.
Ancor più connotate dal diritto di critica si palesa la ricostruzione dei fatti riguardanti l’attività svolta dal ...omissis..., quale sindaco ...omissis.. per ottenere la chiusura della discarica, riportata nel libro suddetto. La critica si caratterizza, infatti, per l’interpretazione dei fatti in chiave assolutamente soggettiva, cioè corrispondente anche al punto di vista di chi la manifesta. Né può ritenersi che l’aver evidenziato i forti interessi e importanti pressioni politiche intervenute per impedire che la nuova discarica venisse realizzata, offenda l’onere e la reputazione della parte attrice.
Deve, inoltre, ritenersi sussistente il requisito della pertinenza, essendo palese l’interesse pubblico ad evitare il perpetrarsi di condotte contrarie alla normativa ovvero di non corretta gestione del servizio (quand’anche poi nel merito venisse accertato che nessuna violazione era stata commessa).
Quanto, infine, all’eventuale contenuto offensivo della ricostruzione effettuata dal ...omissis..., sempre con riguardo all’atto intimidatorio dallo steso subito, secondo cui lo stesso sarebbe stata una vendetta per l’umiliazione subita durante la messa Pontificale, svoltasi in Cattedrale la mattina precedente il fatto delittuoso, va rilevato, in primo luogo, che il contenuto dell’articolo prodotto come documento 4 si palesa assolutamente generico, non riferendo alcuno dei nomi di cui sarebbe stato chiesto l’allontanamento dai banchi della chiesa riservati alle autorità.
Pertanto, nessuna attribuzione di responsabilità ai danni della parte attrice risulta palese o implicita dalla lettura del suddetto articolo.
Viceversa, nel libro sopra citato vengono espressamente indicati i nomi dei soggetti cui il ...omissis... faceva riferimento chiedendone l’allontanamento, ossia il direttore della discarica, ...omissis..., figlio del titolare della stessa (v. pag. 142), nomi tra i quali non compare affatto quello della omissis... (la quale, peraltro, secondo la medesima ricostruzione fornita dal ..omissis.. nello stesso libro, risultava, dalle indagini svolte dalla magistratura, essere solo un prestanome del marito, tale ...omissis.., tanto che, proprio in quegli anni, era stato disposto il sequestro preventivo dell’azienda di cui la omissis.. risultava titolare nell’ambito del procedimento penale contro il ..omissis.., v. doc. 4 prodotto dal convenuto e relativo ai lavori della Commissione Emergenza Rifiuti presso la Prefettura di Catania).
Non si comprende, pertanto, come la stessa possa essersi sentita lesa nel suo onore e nella sua reputazione, posto che la stessa non è stata oggetto di alcuna specifica critica o attribuzione di responsabilità circa l’atto intimidatorio accaduto ai danni del ..omissis...
Alla luce delle superiori considerazioni, può affermarsi che le affermazioni del convenuto si palesano assolutamente non idonee ad offendere i diritti fondamentali dell’onore e della reputazione di parte attrice.
Occorre, tuttavia, da ultimo precisare che, come più volte affermato dalla Suprema Corte, “la lesione del suddetto diritto (ndr all’onore e alla reputazione) è configurabile come illecito ai sensi dell'art. 2043 c.c., al quale, peraltro, non consegue un'automatica risarcibilità, dovendo il pregiudizio (morale e/o patrimoniale) essere provato secondo le regole ordinarie, quale ne sia l'entità e quale sia la difficoltà di provare tale entità” (cfr la sentenza n. 4366 del 2003 sopra citata).
Ed invero, anche nel caso in cui i fatti e gli eventuali addebiti mossi non fossero veritieri, la Corte ha chiarito che “la prova della comunicazione non veritiera è solo la prova del fatto altrui, ma non ancora la prova del danno ingiusto. Tale prova può essere data con ogni mezzo, ed anche attraverso presunzioni, che debbono fondarsi, peraltro, su circostanze gravi, precise e concordanti (art. 2729 c.c.) e non sulla semplice "ragionevolezza" delle asserzioni dell'interessato circa il pregiudizio all'immagine ed il discredito professionale o personale”, precisando che può variare “l'estensione degli oneri probatori a seconda che si versi in ipotesi di lesione di reputazione personale o di reputazione professionale, ma, in entrambi i casi non è 
sufficiente la prova del "fatto altrui" (dichiarazione non veritiera o offensiva) per ritenersi provato anche l'evento lesivo subito dal danneggiato” (cfr Cassazione civile sez. III 10 maggio 2001 n. 6507).
Orbene, nel caso in esame, parte attrice non ha in alcun modo dedotto, né richiesto di provare, la sussistenza dell’evento lesivo dalla stessa subito. Ne consegue che anche sotto tale aspetto le domande risultano infondate.
Alla luce di quanto sopra esposto, vanno rigettate le domande proposte da ...omissis.. nei confronti di ... omissi...
In virtù del principio della soccombenza, parte attrice va condannata al pagamento in favore della convenuta delle spese processuali nella misura liquidata in dispositivo (il cui valore preso a riferimento è stato calcolato sulla base del valore medio dello scaglione da euro 50.001 a euro 100.000 e tenuto conto della mancanza di attività istruttoria).
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, così dispone:
rigetta le domande proposte da ...omissis.. nei confronti di ...omissis... e condanna parte attrice al pagamento in favore del convenuto delle spese processuali che liquida in complessivi euro 5.500,00 per compensi di avvocato (ex DM 140/2012), oltre IVA e CPA come per legge.
 
Così deciso in Catania, il 13 agosto 2013
Il GIUDICE
dott. Dora Bonifacio

La Corte di Giustizia Europea rivede il rapporto tra ricorso principale e incidentale

CGCE, sez. X, sentenza del 4 luglio 2013 (C-100/12)
Data: 
04/07/2013

SENTENZA DELLA CORTE (Decima Sezione)

4 luglio 2013 (*)

«Appalti pubblici – Direttiva 89/665/CEE – Ricorso in materia di appalti pubblici – Ricorso proposto contro la decisione di aggiudicazione di un appalto da un offerente escluso – Ricorso fondato sulla motivazione che l’offerta prescelta non sarebbe conforme alle specifiche tecniche dell’appalto – Ricorso incidentale dell’aggiudicatario fondato sull’inosservanza di alcune specifiche tecniche dell’appalto nell’offerta presentata dall’offerente che ha proposto il ricorso principale – Offerte entrambe non conformi alle specifiche tecniche dell’appalto – Giurisprudenza nazionale che impone di esaminare in via preliminare il ricorso incidentale e, in caso di fondatezza di quest’ultimo, di dichiarare inammissibile il ricorso principale senza esaminarlo nel merito – Compatibilità con il diritto dell’Unione»

Nella causa C‑100/12,

avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, con decisione del 25 gennaio 2012, pervenuta in cancelleria il 24 febbraio 2012, nel procedimento

Fastweb SpA

contro

Azienda Sanitaria Locale di Alessandria,

nei confronti di:

Telecom Italia SpA,

Path-Net SpA,

LA CORTE (decima sezione),

composta da A. Rosas, presidente di sezione, E. Juhász e D. Šváby (relatore), giudici,

avvocato generale: J. Kokott,

cancelliere: A. Impellizzeri, amministratore

vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 6 dicembre 2012,

considerate le osservazioni presentate:

–        per Telecom Italia SpA e Path-Net SpA, da A. Lirosi, M. Martinelli e L. Mastromatteo, avvocati;

–        per il governo italiano, da G. Palmieri, in qualità di agente, assistita da S. Varone, avvocato dello Stato;

–        per la Commissione europea, da A. Tokár e D. Recchia, in qualità di agenti,

vista la decisione, adottata dopo aver sentito l’avvocato generale, di giudicare la causa senza conclusioni,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

-        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori (GU L 395, pag. 33), come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2007 (GU L 335, pag. 31; in prosieguo: la «direttiva 89/665»).

-        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra Fastweb SpA (in prosieguo: «Fastweb»), da una parte, e l’Azienda Sanitaria Locale di Alessandria, nonché Telecom Italia SpA (in prosieguo: «Telecom Italia») ed una controllata di quest’ultima, Path-Net SpA (in prosieguo: «Path-Net»), dall’altra, a proposito dell’aggiudicazione di un appalto pubblico a tale controllata.

 Contesto normativo

-        Il secondo ed il terzo considerando della direttiva 89/665 sono formulati come segue:

«[C]onsiderando che i meccanismi attualmente esistenti, sia sul piano nazionale sia sul piano comunitario, per garantire [l’]applicazione [effettiva delle direttive in materia di appalti pubblici] non sempre permettono di garantire il rispetto delle disposizioni comunitarie, in particolare in una fase in cui le violazioni possono ancora essere corrette;

considerando che l’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza comunitaria rende necessario un aumento notevole delle garanzie di trasparenza e di non discriminazione e che occorre, affinché essa sia seguita da effetti concreti, che esistano mezzi di ricorso efficaci e rapidi in caso di violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici o delle norme nazionali che recepiscano tale diritto».

-        Il considerando 3 della direttiva 2007/66 così recita:

«[…] le garanzie di trasparenza e di non discriminazione che costituiscono l’obiettivo [in particolare della direttiva 89/665] dovrebbero essere rafforzate per garantire che la Comunità nel suo complesso benefici pienamente degli effetti positivi dovuti alla modernizzazione e alla semplificazione delle norme sull’aggiudicazione degli appalti pubblici, operate [in particolare dalla direttiva 2004/18/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (GU L 134, pag. 114)] (…)».

-        Ai sensi dell’articolo 1 della direttiva 89/665, rubricato «Ambito di applicazione e accessibilità delle procedure di ricorso»:

«1.      La presente direttiva si applica agli appalti di cui alla direttiva [2004/18], a meno che tali appalti siano esclusi a norma degli articoli da 10 a 18 di tale direttiva.

Gli appalti di cui alla presente direttiva comprendono gli appalti pubblici, gli accordi quadro, le concessioni di lavori pubblici e i sistemi dinamici di acquisizione.

Gli Stati membri adottano i provvedimenti necessari per garantire che, per quanto riguarda gli appalti disciplinati dalla direttiva [2004/18], le decisioni prese dalle amministrazioni aggiudicatrici possano essere oggetto di un ricorso efficace e, in particolare, quanto più rapido possibile, secondo le condizioni previste negli articoli da 2 a 2 septies della presente direttiva, sulla base del fatto che hanno violato il diritto comunitario in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici o le norme nazionali che lo recepiscono.

(...)

3.      Gli Stati membri provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso, secondo modalità dettagliate che gli Stati membri possono determinare, [per lo meno] a chiunque abbia o abbia avuto interesse ad ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione.

(...)».

-        L’articolo 2, paragrafo 1, della citata direttiva stabilisce quanto segue:

«Gli Stati membri provvedono affinché i provvedimenti presi in merito alle procedure di ricorso di cui all’articolo 1 prevedano i poteri che consentono di:

(...)

b)      annullare o far annullare le decisioni illegittime (…);

(...)».

-        Il considerando 2 della direttiva 2004/18 è formulato come segue:

«L’aggiudicazione degli appalti negli Stati membri per conto dello Stato, degli enti pubblici territoriali e di altri organismi di diritto pubblico è subordinata al rispetto dei principi del trattato [FUE] ed in particolare ai principi della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi, nonché ai principi che ne derivano, quali i principi di parità di trattamento, di non discriminazione, di riconoscimento reciproco, di proporzionalità e di trasparenza. Tuttavia, per gli appalti pubblici con valore superiore ad una certa soglia è opportuno elaborare disposizioni di coordinamento comunitario delle procedure nazionali di aggiudicazione di tali appalti fondate su tali principi, in modo da garantirne gli effetti ed assicurare l’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza. Di conseguenza, tali disposizioni di coordinamento dovrebbero essere interpretate conformemente alle norme ed ai principi citati, nonché alle altre disposizioni del trattato».

-        Ai sensi dell’articolo 2 della direttiva:

«Le amministrazioni aggiudicatrici trattano gli operatori economici su un piano di parità, in modo non discriminatorio e agiscono con trasparenza».

-        L’articolo 32 della direttiva in questione così dispone:

«(...)

2.      Ai fini della conclusione di un accordo quadro, le amministrazioni aggiudicatrici seguono le regole di procedura previste dalla presente direttiva in tutte le fasi fino all’aggiudicazione degli appalti basati su tale accordo quadro. (...)

Gli appalti basati su un accordo quadro sono aggiudicati secondo le procedure previste ai paragrafi 3 e 4. (...)

(...)

4.      (...)

Gli appalti basati su accordi quadro conclusi con più operatori economici possono essere aggiudicati:

(...)

–        qualora l’accordo quadro non fissi tutte le condizioni, dopo aver rilanciato il confronto competitivo fra le parti in base alle medesime condizioni, se necessario precisandole, e, se del caso, ad altre condizioni indicate nel capitolato d’oneri dell’accordo quadro, secondo la seguente procedura:

a)      per ogni appalto da aggiudicare le amministrazioni aggiudicatrici consultano per iscritto gli operatori economici che sono in grado di realizzare l’oggetto dell’appalto;

(...)

d)      le amministrazioni aggiudicatrici aggiudicano ogni appalto all’offerente che ha presentato l’offerta migliore sulla base dei criteri di aggiudicazione fissati nel capitolato d’oneri dell’accordo quadro».

 Procedimento principale e questione pregiudiziale

-      Conformemente al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, «Codice dell’amministrazione digitale» (supplemento ordinario alla GURI n. 112 del 16 maggio 2005), il Centro Nazionale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione (CNIPA) è abilitato a concludere contratti quadro con operatori economici da esso individuati. Le amministrazioni non statali hanno facoltà di attribuire appalti fondati su tali contratti quadro, sulla base delle proprie esigenze di servizio.

-      Il CNIPA ha concluso un contratto quadro di questo tipo, in particolare, con Fastweb e Telecom Italia. Il 18 giugno 2010, l’Azienda Sanitaria Locale di Alessandria ha indirizzato a tali società una richiesta di progetto riguardante «linee dati/fonia» sulla base di un «piano di fabbisogni». Con delibera del 15 settembre 2010, essa ha scelto il progetto presentato da Telecom Italia, concludendo un contratto con una controllata di quest’ultima, Path-Net, il 27 dello stesso mese.

-      Fastweb ha proposto ricorso contro la decisione di aggiudicazione dell’appalto dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte. Telecom Italia e Path-Net sono intervenute nel procedimento, proponendo ricorso incidentale. La legittimità dell’offerta di ciascuno degli operatori viene contestata dal suo unico concorrente a causa del mancato rispetto di alcune specifiche tecniche indicate nel piano di fabbisogni.

-      In esito alla verificazione dell’idoneità delle offerte presentate dalle due società rispetto al piano di fabbisogni, disposta dal giudice del rinvio, è stato constatato che nessuna delle due offerte risultava conforme all’insieme delle specifiche tecniche imposte dal piano. Secondo tale giudice, una simile constatazione dovrebbe logicamente condurre all’accoglimento dei due ricorsi e, di conseguenza, ad annullare la procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico in questione, dal momento che nessun offerente ha presentato un’offerta idonea a dar luogo ad aggiudicazione. Tale soluzione soddisferebbe l’interesse del ricorrente principale, in quanto la rinnovazione della procedura di aggiudicazione gli procurerebbe una nuova chance di ottenere l’appalto.

-      Il giudice del rinvio rileva tuttavia che, con decisione del 7 aprile 2011, resa in adunanza plenaria, il Consiglio di Stato, a proposito dei ricorsi in materia di appalti pubblici, ha enunciato un principio di diritto secondo il quale l’esame di un ricorso incidentale diretto a contestare la legittimazione del ricorrente principale, in quanto illegittimamente ammesso a partecipare alla procedura di aggiudicazione controversa, deve precedere l’esame del ricorso principale, anche nel caso in cui il ricorrente principale abbia un interesse strumentale alla rinnovazione dell’intera procedura di aggiudicazione e indipendentemente sia dal numero dei concorrenti che vi hanno preso parte, sia dal tipo di censura prospettata con il ricorso incidentale, sia infine dalle richieste dell’amministrazione interessata.

-      Il Consiglio di Stato ritiene infatti che la legittimazione a ricorrere contro la decisione di aggiudicazione di un appalto pubblico spetti soltanto al soggetto che abbia legittimamente partecipato alla procedura di aggiudicazione. Secondo tale giudice, l’accertamento dell’illegittimità dell’ammissione del ricorrente principale alla procedura avrebbe una portata retroattiva e l’esclusione definitiva di quest’ultimo dalla suddetta procedura comporterebbe che esso si trovi in una situazione che non gli permette di contestare l’esito della procedura stessa.

-      Secondo questa giurisprudenza del Consiglio di Stato, l’interesse pratico alla rinnovazione della procedura di aggiudicazione invocato dalla parte che abbia proposto ricorso contro la decisione di aggiudicazione di un appalto pubblico non attribuisce a quest’ultima una posizione giuridica fondante la legittimazione al ricorso. Tale interesse non si distinguerebbe infatti da quello di qualsiasi altro operatore economico del settore che aspiri a partecipare ad una futura procedura di aggiudicazione. Pertanto, il ricorso incidentale diretto a contestare la legittimazione del ricorrente principale dovrebbe essere sempre esaminato per primo, anche quando gli offerenti siano solo due, ossia il ricorrente principale, cioè l’offerente escluso e il ricorrente incidentale, cioè l’aggiudicatario.

-      Il giudice del rinvio esprime dubbi sulla compatibilità di tale giurisprudenza, in particolare nella misura in cui essa afferma incondizionatamente la prevalenza del ricorso incidentale su quello principale, con i principi di parità di trattamento, non discriminazione, libera concorrenza e tutela giurisdizionale effettiva, quali recepiti negli articoli 1, paragrafo 1, e 2, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 89/665. Secondo tale giudice, infatti, l’esame in via preliminare – ed eventualmente assorbente – del ricorso incidentale attribuisce all’aggiudicatario un vantaggio ingiustificato rispetto a tutti gli altri operatori economici che hanno partecipato alla procedura di aggiudicazione, qualora risulti che l’appalto gli è stato aggiudicato illegittimamente.

-      Alla luce di quanto sopra, il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:

«Se i principi di parità delle parti, di non discriminazione e di tutela della concorrenza nei pubblici appalti, di cui alla Direttiva [89/665], ostino al diritto vivente quale statuito nella decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4 del 2011, secondo il quale l’esame del ricorso incidentale, diretto a contestare la legittimazione del ricorrente principale attraverso l’impugnazione della sua ammissione alla procedura di gara, deve necessariamente precedere quello del ricorso principale ed abbia portata pregiudiziale rispetto all’esame del ricorso principale, anche nel caso in cui il ricorrente principale abbia un interesse strumentale alla rinnovazione dell’intera procedura selettiva e indipendentemente dal numero dei concorrenti che vi hanno preso parte, con particolare riferimento all’ipotesi in cui i concorrenti rimasti in gara siano soltanto due (e coincidano con il ricorrente principale e con l’aggiudicatario-ricorrente incidentale), ciascuno mirante ad escludere l’altro per mancanza, nelle rispettive offerte presentate, dei requisiti minimi di idoneità dell’offerta».

 Sulla ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale

-      Telecom Italia, Path-Net e il governo italiano contestano la ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale per diversi motivi. Tuttavia, le quattro eccezioni di irricevibilità sollevate al riguardo non possono essere accolte.

-      In primo luogo, infatti, il presente rinvio pregiudiziale è avvenuto in un caso che rientra perfettamente nella previsione dell’articolo 267 TFUE. Ai sensi del primo e del secondo comma di tale articolo, un giudice di uno Stato membro può domandare alla Corte di pronunciarsi su qualsiasi questione relativa all’interpretazione dei trattati e degli atti di diritto derivato, qualora reputi una decisione su questo punto necessaria per emanare la sua sentenza nella controversia di cui è investito. Orbene, nel caso di specie, dalla decisione di rinvio emerge che il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte esprime dei dubbi in merito alle implicazioni della direttiva 89/665 nel contesto fattuale e processuale della controversia di cui al procedimento principale, prospettando due possibili risposte dalle quali discenderebbero soluzioni diverse di tale controversia.

-      In secondo luogo, la decisione del giudice del rinvio contiene una descrizione sufficientemente chiara del contesto giuridico nazionale, in quanto essa descrive e chiarisce la giurisprudenza del Consiglio di Stato, la quale è fondata sull’interpretazione, fornita da quest’ultimo, dell’insieme delle norme e dei principi processuali di diritto nazionale rilevanti in una situazione come quella di cui al procedimento principale, nonché delle conseguenze che ne derivano, secondo tale giudice, in merito all’ammissibilità del ricorso principale dell’offerente escluso.

-      In terzo luogo, nonostante il giudice del rinvio non indichi la specifica disposizione di diritto dell’Unione della quale aspira ad ottenere l’interpretazione, esso si riferisce esplicitamente, già nella stessa questione pregiudiziale, alla direttiva 89/665, e la decisione di rinvio contiene un insieme di informazioni sufficientemente completo per permettere alla Corte di individuare gli elementi di tale diritto che richiedono un’interpretazione, tenuto conto dell’oggetto del procedimento principale (v., per analogia, sentenza del 9 novembre 2006, Chateignier, C‑346/05, Racc. pag. I‑10951, punto 19 e giurisprudenza citata).

-      Infine, in quarto luogo, non risulta che tale controversia riguardi un appalto pubblico rientrante in una delle eccezioni di cui all’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 89/665. Pertanto, nella misura in cui l’importo di tale appalto raggiunga la soglia per l’applicazione della direttiva 2004/18 fissata all’articolo 7 di quest’ultima, cosa che spetta al giudice del rinvio accertare, ma di cui nulla al momento induce a dubitare, le due citate direttive sono applicabili ad un appalto come quello di cui al procedimento principale. Va ricordato, in proposito, che il fatto che una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico riguardi soltanto imprese nazionali è irrilevante ai fini dell’applicazione della direttiva 2004/18 (v., in tal senso, sentenza del 16 dicembre 2008, Michaniki, C‑213/07, Racc. pag. I‑9999, punto 29 e giurisprudenza citata).

 Sulla questione pregiudiziale

-      Con la sua questione, il giudice del rinvio domanda, in sostanza, se le disposizioni della direttiva 89/665, e in particolare i suoi articoli 1 e 2, debbano essere interpretate nel senso che se, in un procedimento di ricorso, l’aggiudicatario solleva un’eccezione di inammissibilità fondata sul difetto di legittimazione a ricorrere dell’offerente che ha proposto il ricorso, con la motivazione che l’offerta da questi presentata avrebbe dovuto essere esclusa dall’autorità aggiudicatrice per non conformità alle specifiche tecniche indicate nel piano di fabbisogni, il suddetto articolo 1, paragrafo 3, osta al fatto che tale ricorso sia dichiarato inammissibile in conseguenza dell’esame preliminare di tale eccezione di inammissibilità, quando il ricorrente contesta a sua volta la legittimità dell’offerta dell’aggiudicatario con identica motivazione e soltanto questi due operatori economici hanno presentato un’offerta.

-      Va rilevato che dall’articolo 1 della direttiva 89/665 deriva che quest’ultima mira a consentire la proposizione di ricorsi efficaci contro le decisioni delle autorità aggiudicatrici contrarie al diritto dell’Unione. Secondo il paragrafo 3 del suddetto articolo, gli Stati membri provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso, secondo le modalità che gli Stati membri possono determinare, almeno a chiunque abbia o abbia avuto interesse ad ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione.

-      A questo proposito, una decisione con cui l’autorità aggiudicatrice esclude un’offerta prima ancora di procedere alla selezione costituisce una decisione contro la quale dev’essere possibile ricorrere, ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 89/665, essendo tale disposizione applicabile a tutte le decisioni adottate dalle autorità aggiudicatrici soggette alle norme di diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici e non prevedendo essa alcuna limitazione relativa alla natura e al contenuto di dette decisioni (v., in particolare, sentenza del 19 giugno 2003, Hackermüller, C‑249/01, Racc. pag. I‑6319, punto 24, e giurisprudenza citata).

-      In tal senso, al punto 26 della citata sentenza Hackermüller, la Corte ha affermato che il fatto che l’autorità dinanzi alla quale si svolge il procedimento di ricorso neghi la partecipazione a tale procedimento, per mancanza della legittimazione a ricorrere, ad un offerente escluso prima ancora di procedere a una selezione, avrebbe l’effetto di privare tale offerente non solo del suo diritto a ricorrere contro la decisione di cui egli afferma l’illegittimità, ma altresì del diritto di contestare la fondatezza del motivo di esclusione allegato da detta autorità per negargli la qualità di persona che sia stata o rischi di essere lesa dall’asserita illegittimità.

-      Certamente, quando, al fine di ovviare a tale situazione, viene riconosciuto all’offerente il diritto di contestare la fondatezza di detto motivo di esclusione nell’ambito del procedimento instaurato a seguito di un ricorso avviato da quest’ultimo per contestare la legittimità della decisione con cui l’autorità aggiudicatrice non ha ritenuto la sua offerta come la migliore, non si può escludere che, al termine di tale procedimento, l’autorità adita pervenga alla conclusione che detta offerta avrebbe dovuto effettivamente essere esclusa in via preliminare e che il ricorso dell’offerente debba essere respinto in quanto, tenuto conto di tale circostanza, egli non è stato o non rischia di essere leso dalla violazione da lui denunciata (v. sentenza Hackermüller, cit., punto 27).

-      In una situazione del genere, all’offerente che ha proposto ricorso contro la decisione di aggiudicazione di un appalto pubblico deve essere riconosciuto il diritto di contestare dinanzi a tale autorità, nell’ambito di tale procedimento, la fondatezza delle ragioni in base alle quali la sua offerta avrebbe dovuto essere esclusa (v., in tal senso, sentenza Hackermüller, cit., punti 28 e 29).

-      Tale insegnamento è applicabile, in linea di principio, anche qualora l’eccezione di inammissibilità non sia sollevata d’ufficio dall’autorità investita del ricorso, ma in un ricorso incidentale proposto da una parte nel procedimento di ricorso, come l’aggiudicatario regolarmente intervenuto nello stesso.

-      Nel procedimento principale, il giudice del rinvio, all’esito della verifica dell’idoneità delle offerte presentate dalle due società in questione, ha constatato che l’offerta presentata da Fastweb non era conforme all’insieme delle specifiche tecniche indicate nel piano di fabbisogni. Esso è giunto peraltro alla stessa conclusione in relazione all’offerta presentata dall’altro offerente, Telecom Italia.

-      Una situazione del genere si distingue da quella oggetto della citata sentenza Hackermüller, in particolare per essere risultato che, erroneamente, l’offerta prescelta non è stata esclusa al momento della verifica delle offerte, nonostante essa non rispettasse le specifiche tecniche del piano di fabbisogni.

-      Orbene, dinanzi ad una simile constatazione, il ricorso incidentale dell’aggiudicatario non può comportare il rigetto del ricorso di un offerente nell’ipotesi in cui la legittimità dell’offerta di entrambi gli operatori venga contestata nell’ambito del medesimo procedimento e per motivi identici. In una situazione del genere, infatti, ciascuno dei concorrenti può far valere un analogo interesse legittimo all’esclusione dell’offerta degli altri, che può indurre l’amministrazione aggiudicatrice a constatare l’impossibilità di procedere alla scelta di un’offerta regolare.

-      Tenuto conto delle considerazioni che precedono, si deve rispondere alla questione sollevata dichiarando che l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 deve essere interpretato nel senso che se, in un procedimento di ricorso, l’aggiudicatario che ha ottenuto l’appalto e proposto ricorso incidentale solleva un’eccezione di inammissibilità fondata sul difetto di legittimazione a ricorrere dell’offerente che ha proposto il ricorso, con la motivazione che l’offerta da questi presentata avrebbe dovuto essere esclusa dall’autorità aggiudicatrice per non conformità alle specifiche tecniche indicate nel piano di fabbisogni, tale disposizione osta al fatto che il suddetto ricorso sia dichiarato inammissibile in conseguenza dell’esame preliminare di tale eccezione di inammissibilità senza pronunciarsi sulla compatibilità con le suddette specifiche tecniche sia dell’offerta dell’aggiudicatario che ha ottenuto l’appalto, sia di quella dell’offerente che ha proposto il ricorso principale.

 Sulle spese

-      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

Per questi motivi, la Corte (decima sezione) dichiara:

L’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2007, deve essere interpretato nel senso che se, in un procedimento di ricorso, l’aggiudicatario che ha ottenuto l’appalto e proposto ricorso incidentale solleva un’eccezione di inammissibilità fondata sul difetto di legittimazione a ricorrere dell’offerente che ha proposto il ricorso, con la motivazione che l’offerta da questi presentata avrebbe dovuto essere esclusa dall’autorità aggiudicatrice per non conformità alle specifiche tecniche indicate nel piano di fabbisogni, tale disposizione osta al fatto che il suddetto ricorso sia dichiarato inammissibile in conseguenza dell’esame preliminare di tale eccezione di inammissibilità senza pronunciarsi sulla conformità con le suddette specifiche tecniche sia dell’offerta dell’aggiudicatario che ha ottenuto l’appalto, sia di quella dell’offerente che ha proposto il ricorso principale.